Se io, infatti, non mi fossi già ben deciso al riguardo, su quale base potrei giudicare che quanto appunto mi sta accadendo non sia forse un «volere» o un «sentire»? Ebbene, quell’«io penso» presuppone il “confronto” del mio stato attuale con altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di stabilire che cosa esso sia: a causa di questo rinvio a un diverso «sapere», esso non ha per me, in nessun caso, un’immediata certezza. - Al posto di quella «certezza immediata», alla quale il popolo, nel caso in questione, può credere, il filosofo si ritrova in tal modo nelle mani una serie di problemi della metafisica, vere e proprie questioni di coscienza dell’intelletto, che così si formulano: «Donde prendo il concetto del pensare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare d’un io e perfino d’un io come causa, e infine ancora d’un io come causa dei pensieri?». Chi, richiamandosi a una specie d‘“intuizione” della conoscenza, si sentisse così fiducioso da rispondere, come fa colui che dice: «Io penso e so che questo almeno è vero, reale, certo» - troverebbe oggi pronti in un filosofo un sorriso e due punti interrogativi: «Signor mio, gli farebbe forse capire il filosofo, è improbabile che lei non si sbagli: ma perché poi verità a tutti i costi?». -
17. Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò mai di tornare sempre a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto, che malvolentieri questi superstiziosi sono disposti ad ammettere, -
vale a dire, che un pensiero viene quando è «lui» a volerlo, e non quando «io» lo voglio (9); cosicché è una “falsificazione” dello stato dei fatti dire: il soggetto «io» è la condizione del predicato
«penso». “Esso” pensa: ma che questo «esso» sia proprio quel famoso vecchio «io» è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è affatto una «certezza immediata» (10). E infine, già con questo «esso pensa» si è fatto anche troppo: già questo «esso» contiene “un’interpretazione” del processo e non rientra nel processo stesso. Si conclude a questo punto, secondo la consuetudine grammaticale: «Pensare è un’attività, a ogni attività compete qualcuno che sia attivo, di conseguenza».
Pressappoco secondo uno schema analogo il più antico atomismo cercava, oltre alla «forza» che agisce, anche quel piccolo conglomerato di materia in cui essa risiede, da cui promana la sua azione, l’atomo; cervelli più rigorosi impararono infine a trarsi d’impaccio senza questo «residuo terrestre» e forse un bel giorno ci si abituerà ancora, anche da parte dei logici, a cavarsela senza quel piccolo
«esso» (nel quale si è volatilizzato l’onesto, vecchio io).
18. In una teoria, la più trascurabile attrattiva non consiste certo nel fatto che essa sia confutabile: appunto con ciò essa attrae cervelli più sottili. Sembra che la cento volte confutata teoria del «libero arbitrio» debba anche a questa attrattiva la sua durata: arriva sempre di nuovo qualcuno che si sente abbastanza forte per confutarla.
19. I filosofi sono soliti parlare della volontà come se fosse la cosa più nota di questo mondo; anzi Schopenhauer ci dette a intendere che la volontà soltanto ci sarebbe propriamente nota, nota in tutto e per tutto, nota senza detrazioni o aggiunte.
Tuttavia mi sembra sempre di nuovo che anche in questo caso Schopenhauer abbia fatto soltanto quel che appunto i filosofi sono soliti fare: che cioè egli abbia accolto un “pregiudizio del volgo” portandolo all’esagerazione. Il volere mi sembra soprattutto qualcosa di “complicato”, qualcosa che soltanto come parola rappresenta una unità, e appunto nell’uso di un’unica parola si nasconde il pregiudizio del volgo, che ha prevalso sulla cautela dei filosofi, in ogni tempo esigua. Si sia dunque, una buona volta, più cauti, si sia «non filosofici» diciamo: in ogni volere c’è in primo luogo una molteplicità di sensazioni, vale a dire la sensazione dello stato da cui ci si vorrebbe
“allontanare”, la sensazione dello stato a cui ci si vorrebbe
“avvicinare”, la sensazione di questo stesso «allontanarsi» e
«tendere», quindi anche una concomitante sensazione muscolare, la quale, pur senza che si metta in movimento «braccia e gambe», comincia il suo giuoco mercé una specie di abitudine, non appena noi «vogliamo». Al pari dunque del sentire, e, per la verità, di un sentire di molte specie, così, in secondo luogo, anche il pensare deve essere riconosciuto quale ingrediente della volontà: in ogni atto di volontà esiste un pensiero che comanda; e non si deve in alcun modo credere di poter separare questo pensiero dal
«volere», come se il volere dovesse poi continuare a sussistere!
In terzo luogo, la volontà non è soltanto un complesso di sensazioni e di pensieri, ma anche, soprattutto, una “passione”: e in realtà quella passione del comando. Quella che viene chiamata
«libertà del volere» è essenzialmente la passione della superiorità rispetto a colui che deve obbedire: «Io sono libero,
‘egli’ deve obbedire» - in ogni volontà si annida questa coscienza e così pure quella tensione dell’attenzione, quello sguardo diritto che s’appunta esclusivamente su “una” cosa, quell’incondizionato apprezzamento di valore «ora che c’è bisogno di questo e non d’un’altra cosa», quell’intima certezza che si sarà ubbiditi, e tutto questo appartiene ancora alla condizione di chi impartisce ordini. Un uomo, che “vuole” - comanda a un qualcosa, in sé, che ubbidisce o alla cui obbedienza egli crede.
Ma si badi ora a quel che v’è di più prodigioso nella volontà, in questa cosa così multiforme per la quale il volgo ha soltanto
“un’unica” parola: in quanto, nel caso dato, noi siamo al tempo stesso chi comanda e chi ubbidisce e, come parte ubbidiente, conosciamo le sensazioni del costringere, dell’opprimere, del comprimere, del resistere, del muovere, le quali sono solite aver inizio subito dopo l’atto del volere; in quanto, d’altro lato, abbiamo l’abitudine, in virtù del concetto sintetico «io», di non dar peso a questo dualismo e di lasciarci ingannare al riguardo, si è agganciati al volere anche un’intera catena di illazioni sbagliate e conseguentemente di false valutazioni della volontà stessa, di guisa che chi vuole crede in buona fede che il volere
“basti” all’azione. Poiché, nel maggior numero dei casi, si è voluto soltanto quando ci si poteva “aspettare” l’effetto del comando, quindi l’obbedienza, quindi l’azione, allora
“l’apparenza” si è trasferita nella sensazione che esista una
“necessità d’effetto”: insomma, chi vuole crede, con un sufficiente grado di certezza, che volontà ed azione siano in qualche modo una cosa sola - egli attribuisce il successo, l’attuazione del suo volere ancora alla volontà stessa e gode in ciò di un accrescimento di quel senso di potenza che ogni successo porta con sé. «Libertà del volere» - è questa la parola per quel multiforme stato di piacere di colui che vuole, il quale comanda e nello stesso tempo si fa tutt’uno con l’esecutore, e, come tale, assapora al tempo stesso il trionfo sulle resistenze, ma giudica in cuor suo che sia la sua volontà ad averle propriamente superate. In tal modo, colui che vuole aggiunge le sensazioni di piacere degli efficaci strumenti esecutivi, delle servizievoli
«volontà inferiori» o anime inferiori - il nostro corpo non è che un’organizzazione sociale di molte anime - al suo senso di piacere come essere che comanda. “L’effet c’est moi”: avviene, in questo caso, quel che si verifica in ogni comunità ben costruita e felice, l’identificazione cioè della classe governante con i successi della comunità. In ogni volere si tratta assolutamente di comandare e obbedire, sulla base, come si è detto, di un’organizzazione sociale di molte «anime»: per la qual cosa un filosofo dovrebbe arrogarsi il diritto di ricomprendere il volere in sé già nell’orizzonte della morale: una morale, cioè intesa come dottrina dei rapporti di supremazia sotto i quali prende origine il fenomeno «vita».
20. Che i singoli concetti filosofici non siano niente di arbitrario, niente che si sviluppi di per sé, bensì concrescano in reciproca relazione e affinità, che essi, per quanto apparentemente compaiano nella storia del pensiero all’improvviso e a capriccio, rientrino in un sistema, allo stesso modo di tutti i membri della fauna di una parte della terra: tutto ciò si rivela, infine, anche nella sicurezza co cui i filosofi più diversi continuano sempre a riempire un certo schema fondamentale di “possibili” filosofie. Alla mercé di un invisibile incantesimo, sempre di nuovo essi ripercorrono ancora una volta la stessa orbita: continuino pure a sentirsi così indipendenti l’uno dall’altro con la loro volontà critica o sistematica, c’è pur sempre un qualcosa, in essi, che li conduce, un qualcosa che li incalza, in un determinato ordine, l’uno dopo l’altro, appunto quella innata sistematica e affinità dei concetti. Il loro pensare è in realtà molto meno uno scoprire che un rinnovato conoscere, un rinnovato ricordare, un procedere a ritroso e un rimpatriare in una lontana, primordiale economia complessiva dell’anima, da cui quei concetti sono germogliati una volta: in questo senso filosofare è una specie d’atavismo di primissimo rango.
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