Ma, in verità, sono desolato di non poterti offrire che questo sgabello. E nemmeno una bibita fresca! Nemmeno un bicchiere di birra! Scusami, sono qui di passaggio».
Ganimard si mise a sedere sorridendo, e il prigioniero riprese, felice di parlare:
«Dio mio, come sono felice di posare i miei occhi sul viso di un uomo onesto! Ne ho abbastanza di tutte queste facce di spie e di aguzzini che passano dieci volte al giorno in rivista le mie tasche e la mia modesta cella, per assicurarsi che non preparo un’evasione. Caspita, come questo governo ci tiene, a me!».
«E ha ragione».
«Ma no! Sarei tanto felice che mi lasciassero vivere nel mio angolino!».
«Con le rendite degli altri».
«È vero? Sarebbe così semplice! Ma io chiacchiero, dico delle sciocchezze, e tu forse hai fretta. Andiamo ai fatti, Ganimard! A cosa devo l’onore di una visita?»
«L’affare Cahorn», dichiarò Ganimard senza giri di parole.
«Altolà! Un secondo... È che ne ho tanti di affari! Devo prima trovare nel mio cervello il dossier dell’affare Cahorn... Ah! Ecco, ci sono. Affare Cahorn, castello del Malaquis, Senna Inferiore... Due Rubens, un Watteau, e alcuni piccoli oggetti».
«Piccoli?»
«Oh! Certo, tutto questo è di mediocre importanza. C’è di meglio. Ma basta che l’affare ti interessi... Parla quindi, Ganimard».
«Devo spiegarti a che punto siamo con l’inchiesta?»
«Inutile! Ho letto i giornali di questa mattina. Mi permetterò anche di dirti che non procedete in fretta».
«Questa è precisamente la ragione per cui mi rivolgo alla tua cortesia».
«Interamente ai tuoi ordini».
«In primo luogo questo: la vicenda è stata guidata da te?»
«Dalla A alla Z».
«La lettera d’avviso? Il telegramma?»
«Sono del tuo servitore. Devo averne anche le ricevute da qualche parte».
Arsène aprì il tiretto di un tavolino di legno bianco che componeva, con letto e sgabello, tutto il mobilio della cella, vi prese due pezzi di carta e li stese a Ganimard.
«Ah! questa poi», esclamò quest’ultimo, «ti credevo guardato a vista e frugato a ogni piè sospinto. Ora, leggi i giornali, collezioni le ricevute della posta...».
«Bah! Queste persone sono così stupide! Scuciono la fodera della giacca, esplorano le suole degli stivaletti, auscultano i muri di questa stanza, ma nemmeno uno avrebbe l’idea che Arsène Lupin sia così sciocco da scegliere un nascondiglio tanto facile. È proprio su questo che ho contato».
Ganimard, divertito, esclamò:
«Che buffo ragazzo! Tu mi sconcerti. Andiamo, raccontami la storia».
«Oh! Oh! Come corri! Iniziarti a tutti i miei segreti... Svelarti i miei piccoli trucchi... È molto grave».
«Ho avuto torto a contare sulla tua cortesia?»
«No, Ganimard, e poiché insisti...».
Arsène Lupin misurò a grandi passi due o tre volte la stanza, poi si fermò e disse:
«Cosa pensi della mia lettera al barone?»
«Penso che tu abbia voluto divertirti, per sbalordire il pubblico».
«Ah! Ecco, sbalordire il pubblico! Ebbene, ti assicuro, Ganimard, che ti credevo più forte. Dilungarmi su queste puerilità, io, Arsène Lupin! Avrei scritto la lettera, se avessi potuto rapinare il barone senza scrivergli? Ma capite quindi, tu e gli altri, che questa lettera è il punto di partenza indispensabile, la molla che ha messo tutta la macchinazione in movimento. Vediamo, procediamo per ordine, e prepariamo insieme, se vuoi, il colpo del Malaquis».
«Ti ascolto».
«Dunque, supponiamo un castello rigorosamente chiuso, barricato, com’era quello del barone Cahorn. Abbandonerò la partita e rinuncerò a tesori che desidero profondamente, col pretesto che il castello che li contiene è inaccessibile?»
«Evidentemente no».
«Tenterò l’assalto come una volta, alla testa di un gruppo di avventurieri?»
«Infantile!».
«M’introdurrò subdolamente?»
«Impossibile».
«Resta un mezzo, l’unico a mio avviso, quello di farmi invitare dal proprietario di detto castello».
«Il mezzo è originale».
«E quanto facile! Supponiamo che un giorno il detto proprietario riceva una lettera, che l’avverta di ciò che trama contro di lui un certo Arsène Lupin, ladro reputato. Che cosa farà?»
«Invierà la lettera al procuratore».
«Che si farà scherno di lui, poiché il detto Lupin è attualmente sotto catenaccio. Quindi, panico del brav’uomo, che è pronto a chiedere soccorso al primo venuto, non è vero?»
«Questo è fuori di dubbio».
«E se gli succede di leggere in un giornale che un celebre poliziotto è in villeggiatura nella località vicina...».
«Si rivolgerà a questo poliziotto».
«Tu l’hai detto. Ma, d’altra parte, ammettiamo che in previsione di questo passo inevitabile, Arsène Lupin abbia pregato un suo amico più abile di spostarsi a Caudebec, di entrare in relazione con un redattore del “Réveil”, giornale a cui è abbonato il barone, di lasciare capire che è il tal poliziotto celebre, che succederà?»
«Che il redattore annuncerà nel “Réveil” la presenza a Caudebec di tale poliziotto».
«Perfetto, e di due cose l’una: o il pesce, voglio dire Cahorn, non abbocca all’amo, e allora niente accade. Oppure, ed è l’ipotesi più verosimile, accorre, tutto scodinzolante. Ed ecco dunque il mio Cahorn implorare contro di me l’assistenza di un mio amico».
«Sempre più originale».
«Beninteso, lo pseudopoliziotto rifiuta in primo luogo il suo concorso. Di lì, dispaccio di Arsène Lupin. Spavento del barone che supplica di nuovo il mio amico, e gli offre tanto per vigilare alla sua salvezza. Il detto amico accetta, porta due giovanotti della nostra banda, che, la notte, mentre Cahorn è sorvegliato a vista dal suo protettore, traslocano dalla finestra un certo numero di oggetti e li lasciano scivolare con l’aiuto di corde, in una buona piccola scialuppa affittata ad hoc. È semplice come Lupin».
«Ed è tutto stupidamente meraviglioso», esclamò Ganimard, «e non saprei lodare abbastanza l’ardimento della concezione e l’ingegnosità dei dettagli. Ma non vedo un poliziotto abbastanza illustre perché il suo nome abbia potuto attrarre, suggestionare il barone a questo punto».
«Ce n’è uno, e ce n’è uno solo».
«Quale?»
«Quello del più illustre, del nemico personale di Arsène Lupin, in breve, dell’ispettore Ganimard».
«Io!».
«Tu stesso, Ganimard.
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