Ed ecco ciò che c’è di delizioso: se tu andrai laggiù e il barone si deciderà a parlare, finirai per scoprire che il tuo dovere è di arrestare te stesso, come mi hai arrestato in America, eh! La rivincita è comica: faccio arrestare Ganimard da Ganimard!».
Arsène Lupin rideva di cuore. L’ispettore, abbastanza offeso, si mordeva le labbra. Lo scherzo non gli sembrava meritare tali accessi di gioia.
L’arrivo di una guardia gli diede la possibilità di riprendersi. L’uomo portava il pasto che Arsène Lupin, per una speciale concessione, faceva venire dal ristorante vicino. Depositato il vassoio sul tavolo, si ritirò. Arsène si accomodò, spezzò il pane, ne mangiò due o tre bocconi e riprese:
«Ma stai tranquillo, mio caro Ganimard, non andrai laggiù. Ti rivelerò una cosa che ti stupirà: il processo sta per essere archiviato».
«Eh?».
«Sta per essere archiviato, ti dico».
«Andiamo, su, ho appena lasciato il capo della Sûreté».
«E dopo? Il signor Dudouis ne sa più di me su ciò che mi riguarda? Saprai che Ganimard, scusami, che lo pseudo Ganimard è rimasto in ottimi rapporti col barone. Questi, ed è la ragione principale per la quale non ha confessato niente, l’ha incaricato della delicatissima missione di negoziare con me una transazione, e fino a ora, grazie a una certa somma, è probabile che il barone sia rientrato in possesso dei suoi cari ninnoli. Al rientro di ogni cosa, ritirerà la denuncia. Quindi, nessun furto. Quindi, occorrerà che la procura abbandoni...».
Ganimard considerò il detenuto con aria stupefatta.
«E come sai tutto questo?»
«Ho appena ricevuto il telegramma che aspettavo».
«Hai appena ricevuto un telegramma?»
«Adesso, caro amico. Per educazione, non ho voluto leggerlo in tua presenza. Ma se mi autorizzi...».
«Tu mi prendi in giro, Lupin».
«Ti prego, mio caro amico, di tagliare delicatamente quest’uovo alla coque. Proverai da te che io non ti prendo in giro».
Meccanicamente, Ganimard obbedì, e tagliò l’uovo con la lama d’un coltello. Un grido di sorpresa gli sfuggì. Il guscio vuoto conteneva un foglio di carta azzurra. Su invito di Arsène, lo spiegò. Era un telegramma, o piuttosto una parte di telegramma cui avevano strappato le indicazioni della posta. Egli lesse:
«Accordo concluso. Centomila franchi consegnati. Tutto bene».
«Centomila franchi?», fece.
«Sì, centomila franchi! È poco, ma insomma i tempi sono duri... E ho delle spese generali così onerose! Se tu conoscessi il mio bilancio... Un bilancio da grande città!».
Ganimard si alzò. Il suo cattivo umore si era dissipato. Rifletté alcuni secondi, considerò brevemente tutta la vicenda, per tentare di scoprirne il punto debole. Poi, con un tono in cui lasciava francamente trasparire la sua ammirazione da intenditore, disse:
«Per fortuna, non ne esistono dozzine come te, altrimenti non ci sarebbe che da chiudere bottega».
Arsène Lupin assunse un po’ l’aspetto di persona modesta e rispose:
«Bah! Bisognava certo distrarsi, occupare il proprio tempo libero... D’altronde il colpo poteva riuscire soltanto se io fossi stato in prigione».
«Come!», esclamò Ganimard. «Il tuo processo, la tua difesa, l’indagine, tutto questo non ti basta dunque per distrarti?»
«No, perché ho scelto di non assistere al mio processo».
«Oh! Oh!».
Arsène Lupin ripeté pacatamente:
«Io non assisterò al mio processo».
«In verità!».
«Ah, poi, caro mio, tu t’immagini che io vada a marcire sulla paglia umida? Tu mi oltraggi. Arsène Lupin resta in prigione solo per il tempo che gli piace, e non un minuto di più».
«Sarebbe forse stato più prudente cominciare col non entrarci», obbiettò l’ispettore con tono ironico.
«Ah! Il signore scherza? Il signore ricorda che ha avuto l’onore di eseguire il mio arresto? Sappi, mio rispettabile amico, che nessuno, tu non più di un altro, avrebbe potuto mettere le mani su di me, se un interesse molto più considerevole non mi avesse spinto a questo momento critico».
«Mi stupisci».
«Una donna mi guardava, Ganimard, e l’amavo. Capisci tutto quello che c’è nel fatto di essere guardato da una donna che si ama? Il resto m’importava poco, ti giuro.
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