Ma questa volta la fortuna è cambiata. Vediamo, Lupin, dimostrati buon giocatore».
Esitai un secondo. Con un colpo secco mi colpì sull’avambraccio destro. Gettai un grido di dolore. Aveva colpito sulla ferita non ancora rimarginata che il telegramma segnalava.
Andiamo, bisognava rassegnarsi. Mi girai verso miss Nelly. Lei ascoltava, livida, barcollante.
Il suo sguardo incontrò il mio, poi si abbassò sulla Kodak che le avevo teso. Fece un gesto brusco, ed ebbi l’impressione, ebbi la certezza che lei capiva di colpo. Sì, era lì, tra le strette pareti di zigrino nero, all’interno del piccolo oggetto che avevo avuto la precauzione di deporre tra le sue mani prima che Ganimard mi arrestasse, era proprio lì che si trovavano i ventimila franchi di Rozaine, le perle e i diamanti di lady Jerland.
Ah! Io lo giuro, in questo solenne momento, mentre Ganimard e due suoi accoliti mi circondavano, tutto mi fu indifferente, il mio arresto, l’ostilità della gente, tutto, all’infuori di questo: la risoluzione che stava per prendere miss Nelly riguardo a quello che le avevo affidato.
Che avessero contro di me questa prova materiale e decisiva non pensavo neppure di temerlo, ma miss Nelly si sarebbe decisa a fornirla, la prova?
Sarei stato tradito da lei? Perduto a causa sua? Avrebbe agito da nemica che non perdona, oppure da donna che si ricorda e il cui disprezzo si addolcisce con un po’ d’indulgenza, con un po’ di simpatia involontaria?
Mi passò davanti. La salutai a bassa voce, senza una parola. Mischiata agli altri passeggeri, si diresse verso la passerella, con la mia Kodak in mano.
Senza dubbio, pensai, non osa in pubblico. Fra un’ora, fra poco, la darà.
Ma giunta a metà della passerella, con un gesto maldestro, simulato, la lasciò cadere in acqua, tra il muro della banchina e il fianco della nave.
Poi la vidi allontanarsi.
La sua graziosa figura si perse tra la folla, m’apparve di nuovo e scomparve. Era finita, finita per sempre.
Per un po’, restai immobile, triste a un tempo e immerso in una dolce commozione, poi, sospirai, con grande stupore di Ganimard:
«Peccato, comunque, di non essere una persona onesta...».
E così, una sera d’inverno, Arsène Lupin mi raccontò la storia del suo arresto. La combinazione di incidenti di cui scriverò un giorno o l’altro il racconto aveva annodato tra noi dei legami... direi di amicizia? Sì, oso credere che Arsène Lupin mi onori di qualche amicizia, ed è per amicizia che giunge a volte a casa mia all’improvviso, portando nel silenzio del mio studio la sua allegria giovanile, l’influenza della sua vita ardente, il suo bell’umore di uomo per il quale il destino non ha che favori e sorrisi.
Il suo ritratto? Ma come potrei dipingerlo? Venti volte ho visto Arsène Lupin, e venti volte è apparsa davanti a me una persona diversa o, piuttosto, la stessa persona di cui venti specchi mi avrebbero rinviato altrettante immagini deformate, ciascuna con i suoi occhi particolari, la sua forma speciale del volto, il suo gesto proprio, la sua figura e il suo carattere.
«Io stesso», mi disse, «non so più bene chi io sia. In uno specchio non mi riconosco più».
Certo, una battuta, e paradosso, ma verità nei confronti di coloro che lo incontrano e che ignorano le sue infinite risorse, la sua pazienza, la sua arte del maquillage, la sua prodigiosa facoltà di trasformare persino le proporzioni del suo viso, e di alterare il rapporto stesso dei tratti fra loro.
«Perché», aggiunse, «avrei un aspetto definito? Perché non evitare il pericolo d’una personalità sempre identica? I miei atti mi designano sufficientemente».
E precisa, con una punta d’orgoglio:
«Tanto meglio se non si può mai dire in tutta certezza: “Ecco Arsène Lupin”. L’essenziale è che si dica senza timore di sbagliare: “Arsène Lupin ha fatto questo”».
Sono alcuni di questi atti, alcune di queste avventure che provo a ricostruire, secondo le confidenze di cui ebbe la buona grazia di favorirmi, certe sere d’inverno, nel silenzio del mio studio...
2.
Arsène Lupin in prigione
Non vi è turista degno di questo nome che non conosca le rive della Senna, e che non abbia notato, passando dalle rovine di Jumièges a quelle di Saint-Wandrille, lo strano, piccolo castello feudale del Malaquis, così fieramente costruito sulla roccia, in mezzo al fiume. L’arcata d’un ponte lo collega alla strada. La base delle sue torrette scure si confonde col granito che lo sostiene, blocco enorme staccato da non si sa quale montagna e buttato lì da qualche formidabile scossa sismica. Tutt’intorno, l’acqua tranquilla gioca fra le canne, e delle cutrettole tremano sullo strato umido dei ciottoli.
La storia del Malaquis è rude come il nome, arcigna come il suo aspetto. Vi furono solo combattimenti, assedi, assalti, rapine e massacri. Nelle veglie serali del paese di Caux, si evocano, rabbrividendo, i crimini che vi si commisero. Si raccontano misteriose leggende. Si parla del famoso sotterraneo che conduceva una volta all’abbazia di Jumièges e al maniero di Agnès Sorel, la bella amica di Carlo vii.
In questo antico covo di eroi e briganti, abita il barone Nathan Cahorn, il barone Satana, come lo chiamavano un tempo alla Borsa dove si è arricchito un po’ troppo bruscamente. I signori del Malaquis, rovinati, hanno dovuto vendergli, per un pezzo di pane, la dimora degli antenati. Vi ha sistemato le sue ammirevoli collezioni di mobili e di quadri, di maioliche e di sculture in legno. Ci vive da solo, con i suoi tre vecchi domestici. Nessuno vi entra mai. Nessuno ha mai contemplato nell’arredamento di queste antiche sale i tre Rubens che possiede, i suoi due Watteau, il pulpito di Jean Goujon, e tante altre meraviglie strappate a colpi di biglietti di banca ai più ricchi affezionati delle aste pubbliche.
Il barone Satana ha paura. Non ha paura per sé, ma per i tesori accumulati con una passione così tenace e la perspicacia d’un collezionista che i più scaltri mercanti non possono vantarsi di avere indotto in errore.
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