Aveva l’aria sofferente di chi ha passato una notte particolarmente brutta, dovuta a una digestione peggiore del solito. Colse le ultime parole di Bartleby.

«Preferirebbe di no, eh?», ringhiò Pince-Nez. «Lo preferirei io se fossi in lei, signore», rivolto a me, «lo preferirei io; gli darei io le preferenze, a quel mulo cocciuto! Scusi, signore, cos’è che preferisce non fare adesso?».

Bartleby non batté ciglio.

«Signor Pince-Nez, preferirei che lei si ritirasse per il momento», dissi.

In qualche modo, da un po’ di tempo, avevo preso involontariamente l’abitudine di usare la parola «preferire» a ogni piè sospinto, anche fuori luogo. Tremavo all’idea che la vicinanza dello scrivano avesse già, e in modo grave, compromesso il mio equilibrio mentale. Quali altre e peggiori aberrazioni non avrebbe potuto produrre? Questa apprensione aveva avuto la sua parte nella decisione di prendere drastiche misure.

Mentre Pince-Nez si allontanava con aria acida e scontrosa, si avvicinò beato e ossequioso Tacchino.

«Con rispetto, signore», disse, «ieri mi sono messo a pensare al nostro Bartleby. Secondo me, se solo lo preferisse, un quarto di buona birra al giorno farebbe molto nel curarlo e metterlo in sesto per aiutare a controllare i documenti»

«Così anche lei è rimasto contagiato dalla parola», dissi leggermente eccitato.

«Con rispetto, signore, quale parola?», chiese Tacchino ficcandosi nel ristretto spazio dietro il paravento e, così facendo, mandandomi a urtare lo scrivano. «Quale parola, signore?»

«Preferirei essere lasciato solo qui», disse Bartleby, quasi offeso per quell’invasione nel suo spazio privato.

«Ecco la parola, Tacchino», dissi, «eccola!».

«Oh, preferire? Oh, sì... strana parola. Non la uso mai io. Ma, signore, come stavo dicendo, se preferisse...»

«Tacchino», lo interruppi, «si ritiri, per favore». «Certamente, signore, se lei preferisce così». Mentre apriva la porta pieghevole per ritirarsi, Pince-Nez, lanciandomi un’occhiata dalla sua scrivania, mi chiese se preferissi che un certo documento venisse copiato su carta azzurra o bianca. Non sottolineò con accento malizioso la parola «preferire». Era chiaro che gli era sfuggita dalle labbra in modo involontario. «Devo sbarazzarmi senz’altro di questo demente, che ha già, in certa misura, turbato la lingua, se non il cervello mio e dei miei impiegati», pensai fra me. Ma ritenni prudente non spiattellargli lì per lì il licenziamento.

Il giorno successivo notai che Bartleby non faceva nulla salvo starsene in piedi alla finestra, perso nella fantasticheria ispiratagli dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più.

«Come, anche questo adesso? Cos’altro?», esclamai. «Non vuole più scrivere?»

«No».

«Per quale ragione?»

«Non capisce da sé la ragione?», rispose con indifferenza.

Lo guardai fisso e notai che i suoi occhi apparivano spenti e vitrei. Mi venne subito da pensare che l’impareggiabile diligenza, durante le prime settimane del suo impiego presso di me, nel copiare accanto a quella buia finestra gli avesse temporaneamente affaticato la vista.

Ne fui commosso. Gli espressi il mio rammarico; accennai al fatto che naturalmente faceva cosa saggia ad astenersi dallo scrivere per un po’; lo incitai a cogliere quell’occasione per fare qualche salutare attività all’aria aperta. Cosa, tuttavia, che egli non fece. Alcuni giorni dopo, durante un’assenza degli altri impiegati, mi saltò in mente, avendo grande premura di spedire certe lettere per posta, che Bartleby, non avendo nulla al mondo da fare, sarebbe stato di sicuro meno inflessibile del solito e avrebbe portato le lettere all’ufficio postale. Ma rifiutò con aria irremovibile e assente. Così, con notevole disagio, ci andai di persona.

Passarono altri giorni. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o meno, non saprei. Di primo acchito avrei detto di sì. Ma quando gli chiesi conferma, non mi accordò risposta. In ogni caso non copiava niente. Alla fine, su mia sollecitazione, mi rispose di aver smesso di copiare per sempre.

«Cosa!», esclamai. «Supponiamo che i suoi occhi guariscano perfettamente - meglio di prima - non vorrà più copiare?»

«Ho smesso di copiare», rispose e scivolò via.

Rimase, come prima, a essere un infisso nel mio studio.