Anzi - se possibile - divenne più che mai un infisso. Che cosa fare? Non voleva fare nulla nell’ufficio: perché allora doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un’inutile collana, greve da sopportare, per giunta. Eppure mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente solo nell’intero universo. Un relitto nel mezzo dell’Atlantico. Alla lunga le tiranniche esigenze del lavoro travolsero ogni altra considerazione. Con tutto il tatto possibile dissi a Bartleby che, in capo a sei giorni, doveva assolutamente lasciare l’ufficio. Lo consigliai di adoperarsi, nel frattempo, per trovarsi un altro alloggio. Mi offrii di aiutarlo in questa fatica, purché facesse il primo passo per il trasloco. «E quando alla fine mi lascerà, Bartleby», aggiunsi, «provvederò a che lei non se ne vada del tutto sprovvisto. Sei giorni da adesso, se ne ricordi».

Alla fine di quel periodo guardai dietro il paravento, ed ecco Bartleby, sempre lì.

Mi abbottonai la giacca, mi feci forza, avanzai lentamente verso di lui, gli toccai la spalla e dissi: «È venuto il momento; deve lasciare questo posto. Mi spiace per lei, ecco il danaro, ma deve andarsene».

«Preferirei di no», rispose sempre con le spalle voltate.

«Lei deve andarsene».

Rimase in silenzio.

Ora io avevo illimitata fiducia nell’onestà di quell’uomo. Spesso mi aveva consegnato monetine da sei centesimi e qualche scellino che avevo sbadatamente lasciato cadere, perché sono incline a essere distratto in queste cosucce. Quello che seguì non parrà, allora, fuori dell’ordinario.

«Bartleby», dissi, «le devo dodici dollari per il lavoro svolto. Eccone trentadue; i venti in più sono per lei. Vuole prenderli?», e gli tesi le banconote.

Non si mosse.

«Li lascio qui allora», dissi mettendoli sul tavolo sotto un fermacarte. Prendendo quindi cappello e bastone, e avviandomi alla porta, mi volsi tranquillamente aggiungendo: «Quando avrà portato via le sue cose dall’ufficio, Bartleby, chiuda la porta - ormai se ne sono andati tutti per oggi, tranne lei. E, per favore, infili la chiave sotto lo zerbino, dove domattina io possa trovarla. Non la vedrò più: addio, dunque. Se in futuro, nel suo nuovo alloggio, potrò esserle utile, non manchi di avvertirmi per lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna».

Ma egli non rispose neppure una parola; simile all’ultima colonna di un tempio in rovina, rimase in piedi, muto e solitario nel mezzo della stanza altrimenti deserta.

Incamminandomi verso casa meditabondo, la vanità ebbe la meglio sulla pietà. Non potevo non essere compiaciuto per come avevo magistralmente condotto le cose nel liberarmi di Bartleby. Magistralmente - così mi esprimo - e tale deve apparire a ogni pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica sembrava risiedere nella sua perfetta, pacata sobrietà. Nessuna arroganza volgare, nessuna spacconata di alcun tipo, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo studio, sbottando in ordini rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo meno perspicace - partivo dal presupposto che andarsene doveva, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo da dire. Più riflettevo su come erano andate le cose, più ne ero incantato.