Sei giorni da adesso, se ne ricordi».

Alla fine di quel periodo guardai dietro il paravento, ed ecco Bartleby, sempre lì.

Mi abbottonai la giacca, mi feci forza, avanzai lentamente verso di lui, gli toccai la spalla e dissi: «È venuto il momento; deve lasciare questo posto. Mi spiace per lei, ecco il danaro, ma deve andarsene».

«Preferirei di no», rispose sempre con le spalle voltate.

«Lei deve andarsene».

Rimase in silenzio.

Ora io avevo illimitata fiducia nell’onestà di quell’uomo. Spesso mi aveva consegnato monetine da sei centesimi e qualche scellino che avevo sbadatamente lasciato cadere, perché sono incline a essere distratto in queste cosucce. Quello che seguì non parrà, allora, fuori dell’ordinario.

«Bartleby», dissi, «le devo dodici dollari per il lavoro svolto. Eccone trentadue; i venti in più sono per lei. Vuole prenderli?», e gli tesi le banconote.

Non si mosse.

«Li lascio qui allora», dissi mettendoli sul tavolo sotto un fermacarte. Prendendo quindi cappello e bastone, e avviandomi alla porta, mi volsi tranquillamente aggiungendo: «Quando avrà portato via le sue cose dall’ufficio, Bartleby, chiuda la porta - ormai se ne sono andati tutti per oggi, tranne lei. E, per favore, infili la chiave sotto lo zerbino, dove domattina io possa trovarla. Non la vedrò più: addio, dunque. Se in futuro, nel suo nuovo alloggio, potrò esserle utile, non manchi di avvertirmi per lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna».

Ma egli non rispose neppure una parola; simile all’ultima colonna di un tempio in rovina, rimase in piedi, muto e solitario nel mezzo della stanza altrimenti deserta.

Incamminandomi verso casa meditabondo, la vanità ebbe la meglio sulla pietà. Non potevo non essere compiaciuto per come avevo magistralmente condotto le cose nel liberarmi di Bartleby. Magistralmente - così mi esprimo - e tale deve apparire a ogni pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica sembrava risiedere nella sua perfetta, pacata sobrietà. Nessuna arroganza volgare, nessuna spacconata di alcun tipo, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo studio, sbottando in ordini rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo meno perspicace - partivo dal presupposto che andarsene doveva, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo da dire. Più riflettevo su come erano andate le cose, più ne ero incantato. Il mattino dopo, tuttavia, al risveglio, avevo i miei dubbi - in qualche modo il sonno aveva smaltito i fumi della vanità. Uno dei momenti in cui si è più lucidi e saggi è subito dopo il risveglio, al mattino. Mi sembrava ancora di essermi comportato con sagacia... ma soltanto in teoria. Come sarebbe stato in pratica - ecco l’intoppo. Era davvero un pensiero meraviglioso supporre che Bartleby se ne fosse andato, ma, dopo tutto, era esclusivamente una mia supposizione, non certo di Bartleby. Il grosso nodo non era che fossi io a supporre, bensì che fosse lui a preferire. Era un uomo di preferenze più che di supposizioni.

Dopo colazione mi incamminai verso lo studio dibattendo le probabilità a favore e quelle contro. Un attimo pensavo che la mia tattica si sarebbe rivelata un penoso fallimento e che avrei trovato Bartleby piantato nel mio ufficio come al solito; un attimo dopo mi pareva certo che avrei trovato vuota la sua sedia. Così continuavo a cambiare opinione. All’angolo di Broadway e Canal Street vidi un gruppo di gente piuttosto agitata, impegnata in un’accesa discussione.

«Scommetto che non lo fa», disse una voce mentre passavo.

«Che non se ne va? D’accordo!», dissi. «Fuori i soldi».

Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca per tirar fuori la mia posta, quando mi ricordai che quello era giorno di elezioni.