Non sottolineò con accento malizioso la parola «preferire». Era chiaro che gli era sfuggita dalle labbra in modo involontario. «Devo sbarazzarmi senz’altro di questo demente, che ha già, in certa misura, turbato la lingua, se non il cervello mio e dei miei impiegati», pensai fra me. Ma ritenni prudente non spiattellargli lì per lì il licenziamento.
Il giorno successivo notai che Bartleby non faceva nulla salvo starsene in piedi alla finestra, perso nella fantasticheria ispiratagli dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più.
«Come, anche questo adesso? Cos’altro?», esclamai. «Non vuole più scrivere?»
«No».
«Per quale ragione?»
«Non capisce da sé la ragione?», rispose con indifferenza.
Lo guardai fisso e notai che i suoi occhi apparivano spenti e vitrei. Mi venne subito da pensare che l’impareggiabile diligenza, durante le prime settimane del suo impiego presso di me, nel copiare accanto a quella buia finestra gli avesse temporaneamente affaticato la vista.
Ne fui commosso. Gli espressi il mio rammarico; accennai al fatto che naturalmente faceva cosa saggia ad astenersi dallo scrivere per un po’; lo incitai a cogliere quell’occasione per fare qualche salutare attività all’aria aperta. Cosa, tuttavia, che egli non fece. Alcuni giorni dopo, durante un’assenza degli altri impiegati, mi saltò in mente, avendo grande premura di spedire certe lettere per posta, che Bartleby, non avendo nulla al mondo da fare, sarebbe stato di sicuro meno inflessibile del solito e avrebbe portato le lettere all’ufficio postale. Ma rifiutò con aria irremovibile e assente. Così, con notevole disagio, ci andai di persona.
Passarono altri giorni. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o meno, non saprei. Di primo acchito avrei detto di sì. Ma quando gli chiesi conferma, non mi accordò risposta. In ogni caso non copiava niente. Alla fine, su mia sollecitazione, mi rispose di aver smesso di copiare per sempre.
«Cosa!», esclamai. «Supponiamo che i suoi occhi guariscano perfettamente - meglio di prima - non vorrà più copiare?»
«Ho smesso di copiare», rispose e scivolò via.
Rimase, come prima, a essere un infisso nel mio studio. Anzi - se possibile - divenne più che mai un infisso. Che cosa fare? Non voleva fare nulla nell’ufficio: perché allora doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un’inutile collana, greve da sopportare, per giunta. Eppure mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente solo nell’intero universo. Un relitto nel mezzo dell’Atlantico. Alla lunga le tiranniche esigenze del lavoro travolsero ogni altra considerazione. Con tutto il tatto possibile dissi a Bartleby che, in capo a sei giorni, doveva assolutamente lasciare l’ufficio. Lo consigliai di adoperarsi, nel frattempo, per trovarsi un altro alloggio. Mi offrii di aiutarlo in questa fatica, purché facesse il primo passo per il trasloco. «E quando alla fine mi lascerà, Bartleby», aggiunsi, «provvederò a che lei non se ne vada del tutto sprovvisto.
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