Per tutto il tempo lo scrivano se ne rimase in piedi dietro il paravento che ordinai di portar via per ultimo. Fu tolto e, piegato come un enorme foglio, lo lasciò inquilino immobile di una stanza spoglia. Mi fermai sulla soglia guardandolo per un momento, mentre dentro di me qualcosa mi rimordeva.

Ritornai indietro con la mano in tasca e il cuore in gola.

«Addio, Bartleby, me ne vado... addio e Dio la protegga in qualche modo. Prenda», facendogli scivolare qualcosa in mano. Ma finì a terra e allora - strano a dirsi - dovetti fare uno sforzo per strapparmi da lui, e sì che avevo tanto desiderato sbarazzarmene.

Nel mio nuovo studio, per un giorno o due, tenni la porta chiusa a chiave, trasalendo a ogni rumor di passi nel corridoio. Ritornando in ufficio, dopo un’assenza anche brevissima, indugiavo sulla soglia per un attimo, tendendo l’orecchio con attenzione, prima di infilare la chiave. Ma erano paure superflue. Bartleby non venne mai da me.

Pensavo che tutto andasse per il meglio, quando venne a trovarmi uno sconosciuto dall’aria sconvolta, chiedendomi se fossi io la persona che ultimamente aveva occupato i locali al n.- di Wall Street.

In preda a cupi presentimenti risposi di sì.

«Allora, signore», disse lo sconosciuto che risultò essere un avvocato, «lei è responsabile dell’uomo che si è lasciato dietro. Rifiuta di copiare, rifiuta di fare qualsiasi cosa; dice che preferisce di no, rifiuta di lasciare i locali».

«Ne sono desolato, signore», risposi fingendomi calmo, sebbene tremassi dentro di me, «ma l’uomo cui lei allude non è niente per me - non è un mio parente, non è neppure un apprendista per il quale lei potrebbe ritenermi responsabile».

«In nome del cielo, chi è?»

«Non sono in grado di dirglielo. Non so nulla di lui. In passato lo assunsi come copista, ma da un po’ di tempo non fa niente per me».

«Lo sistemerò io, allora... buon giorno, signore».

Trascorsero parecchi giorni, e non ne seppi più nulla. Se anche a volte mi sentivo spinto da un impulso caritatevole ad andare a trovare il povero Bartleby, tuttavia mi tratteneva una certa ripugnanza per chissà che cosa.

«Ormai è sistemato», pensai alla fine, quando, per tutta la successiva settimana, non ebbi altre notizie di lui. Ma, arrivando nello studio il giorno dopo, trovai, in attesa davanti alla mia porta, varie persone agitatissime.

«Eccolo... arriva», gridò il portavoce che riconobbi come l’avvocato venuto da me in precedenza.

«Deve portarselo via immediatamente, signore», gridò avvicinandosi a me un signore distinto, che sapevo essere il proprietario dello stabile al n. - di Wall Street. «Questi signori, miei inquilini, non lo tollerano più. Il signor B.», indicando l’avvocato, «l’ha messo fuori del suo ufficio, e lui adesso si ostina a funestare l’intera casa, sedendosi sulla ringhiera delle scale di giorno e dormendo nell’ingresso di notte. Ne sono tutti preoccupati; i clienti se ne vanno; serpeggia la paura di una sommossa. Bisogna intervenire e senza perdere tempo».

Atterrito da quel torrente di parole, indietreggiai e sarei stato contento di chiudermi a chiave nel mio nuovo studio. Invano continuai a insistere che Bartleby non era niente per me - non più di chiunque altro. Invano: risultavo essere io l’ultima persona che aveva avuto a che fare con lui e dovevo rendere conto della terribile situazione. Timoroso dunque di finire sui giornali (come minacciò oscuramente uno dei presenti), considerai la faccenda e, dopo un po’, dissi che, se l’avvocato mi avesse concesso di parlare allo scrivano in privato nel suo ufficio (dell’avvocato), quel pomeriggio mi sarei adoperato al massimo per liberarlo del fastidio all’origine delle sue recriminazioni.

Salendo le scale verso la mia vecchia tana, ecco Bartleby che in silenzio se ne stava seduto sulla ringhiera del pianerottolo.

«Che cosa fa qui, Bartleby?», chiesi.

«Sto seduto sulla ringhiera», rispose mitemente.

Gli feci cenno di entrare nell’ufficio dell’avvocato che subito se ne andò.

«Bartleby», dissi, «si rende conto che mi fa tribolare ostinandosi a occupare l’ingresso, dopo essere stato licenziato dall’ufficio?»

Nessuna risposta.

«Ora una delle due: o lei fa qualcosa, oppure qualcosa va fatto a lei. In che lavoro le piacerebbe impegnarsi? Vorrebbe riprendere a copiare per qualcuno?»

«No, preferirei non fare cambiamenti».

«Vorrebbe fare il contabile in una drogheria?»

«Si sta troppo al chiuso. No, non mi va di fare il contabile, ma non faccio il difficile».

«Troppo al chiuso?», esclamai. «Ma se lei se ne sta sempre rinchiuso!»

«Preferirei non fare il contabile», aggiunse come a sistemare subito quella piccola questione.

«Le andrebbe di lavorare in un bar? In quel mestiere non si sforza gli occhi».

«Non mi piacerebbe affatto, anche se, come ho già detto, non faccio il difficile».

L’insolita loquacità mi diede un’ispirazione. Ritornai alla carica.

«Le piacerebbe allora viaggiare per tutto il paese a riscuotere crediti per i commercianti? Le farebbe bene alla salute».

«No, preferirei fare qualcos’altro».

«Che ne direbbe di andare in Europa al seguito di qualche giovane gentiluomo per intrattenerlo con la sua conversazione... Le andrebbe?»

«Per niente. Non mi pare che ci sia niente di stabile.