Mi piace stare fermo in un posto. Ma non faccio il difficile».
«E fermo in un posto allora se ne starà», esclamai perdendo la pazienza e sbottando di rabbia per la prima volta nella storia dei miei esasperanti rapporti con lo scrivano. «Se lei non se ne va da questo stabile prima di sera, sarò costretto - anzi sono costretto - a... a... ad andarmene io stesso!», conclusi in modo piuttosto incongruo, non sapendo con quale minaccia spaventarlo per scuoterlo da quella sua immobilità, inducendolo a obbedire. Disperando nell’esito di altri sforzi, stavo per lasciarlo precipitosamente, quando mi venne un ultimo pensiero... un’idea che non avevo mai del tutto accantonato in precedenza.
«Bartleby», dissi con il tono più gentile che in tutta quella concitazione mi riuscì di assumere, «vuole venire con me - non nel mio ufficio, ma nel mio appartamento - e restare lì finché non avremo trovato con comodo una sistemazione conveniente? Su, andiamoci adesso, subito».
«No, per il momento preferirei non cambiare nulla».
Non replicai ma, scansando tutti con una fuga subitanea e rapida, mi precipitai fuori da quello stabile, risalii di corsa Wall Street verso Broadway e, saltando sul primo omnibus, mi trovai presto al sicuro dagli inseguimenti. Non appena fui di nuovo calmo, capii distintamente di aver fatto tutto il possibile sia per venire incontro alle esigenze del padrone di casa e degli inquilini, sia per appagare il mio desiderio e obbligo morale di aiutare Bartleby e proteggerlo da una dura persecuzione. Mi sforzai allora di scrollarmi di dosso ogni ansia e di mettermi tranquillo; la coscienza approvava quel tentativo, sebbene non proprio come avrei voluto. Ero così timoroso di essere stanato dall’esasperato proprietario e dagli adirati inquilini che, affidando l’ufficio a Pince-Nez per qualche giorno, mi diressi in carrozza verso la parte alta della città, attraversando i sobborghi, arrivai a Jersey City e Hoboken, al di là del fiume, visitai in gran fretta Manhattanville e Astoria. Insomma vissi quasi tutto il tempo in carrozza.
Quando varcai di nuovo la soglia dello studio, ecco sulla mia scrivania un messaggio del padron di casa. Lo aprii con mani tremanti. Mi informava che lo scrivente aveva fatto intervenire la polizia e condurre Bartleby alle Tombe per vagabondaggio. Siccome io su di lui ne sapevo più di ogni altro, mi pregava di recarmi in quel luogo e fare un’adeguata deposizione dei fatti. Questi ragguagli ebbero su di me reazioni contrastanti. Dapprima ne fui sdegnato, ma, alla fine, giunsi quasi ad approvare la decisione. Il temperamento sbrigativo ed energico del padron di casa lo aveva indotto ad adottare una procedura che non credo mi sarei mai deciso a seguire, eppure, estremo rimedio in quelle circostanze tanto insolite, sembrava l’unica soluzione.
Come appresi più tardi, il povero scrivano, avvertito che doveva essere tradotto alle Tombe, non aveva opposto la minima resistenza, ma vi si era adeguato con la sua pallida, imperturbabile mansuetudine.
Alcuni presenti, per compassione e curiosità, si erano uniti al gruppo e, capeggiato da un poliziotto a braccetto di Bartleby, il silenzioso corteo aveva sfilato attraverso le concitate strade in mezzo al frastuono e al caldo e all’allegria di mezzogiorno.
Lo stesso giorno in cui ricevetti quel messaggio, mi recai alle Tombe, ovvero, per esprimermi con precisione, al carcere giudiziario. Cercato il funzionario competente, dichiarai lo scopo della mia visita e venni a sapere che di fatto l’individuo descritto era lì trattenuto. Assicurai allora il funzionario che Bartleby era un uomo di assoluta probità, da commiserare profondamente, seppur eccentrico al di là di ogni dire. Esposi tutto quello che sapevo e conclusi suggerendo di tenerlo in reclusione con tutta l’indulgenza possibile, finché non si fosse trovata una soluzione meno aspra, sebbene invero non sapessi quale potesse essere. Se poi non si fosse deciso niente, lo avrebbe accolto l’ospizio dei poveri. Chiesi quindi di parlargli.
Non essendo imputato di nessun grave reato e avendo sempre un’aria docile e innocua, gli avevano concesso di aggirarsi liberamente per la prigione e soprattutto nei cortili erbosi interni. Fu quindi lì che lo trovai, da solo, in piedi nell’angolo più tranquillo, con il volto verso un alto muro, mentre tutto intorno, attraverso le strette feritoie delle finestre della prigione, mi parve di scorgere gli occhi di ladri e assassini che sbirciavano.
«Bartleby! »
«La conosco», disse senza voltarsi, «non ho nulla da dirle».
«Non sono stato io a portarla qui, Bartleby», dissi profondamente addolorato dall’implicito sospetto. «E per lei questo non dovrebbe essere un posto tanto abbietto. Non le viene imputata nessuna azione riprovevole per trovarsi qui. E guardi: non è poi così triste come si potrebbe pensare. Guardi: c’è il cielo, c’è l’erba».
«So dove mi trovo», rispose, ma non volle aggiungere altro, e così lo lasciai.
Mentre imboccavo di nuovo il corridoio, un omaccione dall’aria sanguigna, con un grembiule, mi si avvicinò e, indicando con il pollice sopra la sua spalla, disse: «E un suo amico?»
«Sì».
«Vuole morire di fame? Se sì, basta dargli la razione che passa il carcere, ed è fatta».
«Lei, chi è?», chiesi non sapendo come catalogare una persona che in un tale posto parlava in modo così poco ufficiale.
«Sono il vivandiere. I signori qui che hanno amici mi pagano, così io gli porto cose buone da mangiare».
«È vero?», chiesi volgendomi verso il secondino.
Lo confermò.
«Allora», dissi facendo scivolare qualche moneta d’argento nelle mani del vivandiere (perché così lo chiamavano), «le chiedo di prestare particolare attenzione al mio amico qui. Gli faccia avere il miglior pranzo che riesce a trovare. E con
lui sia più gentile che può».
«Che ne dice di presentarmi?», chiese il vivandiere guardandomi con un’espressione che sembrava significare l’impazienza di mostrarmi le sue buone maniere.
Pensando che potesse giovare allo scrivano, accondiscesi e, chiedendo al vivandiere come si chiamasse, mi avvicinai con lui a Bartleby.
«Bartleby, ecco un amico.
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