buon giorno, signore».
Trascorsero parecchi giorni, e non ne seppi più nulla. Se anche a volte mi sentivo spinto da un impulso caritatevole ad andare a trovare il povero Bartleby, tuttavia mi tratteneva una certa ripugnanza per chissà che cosa.
«Ormai è sistemato», pensai alla fine, quando, per tutta la successiva settimana, non ebbi altre notizie di lui. Ma, arrivando nello studio il giorno dopo, trovai, in attesa davanti alla mia porta, varie persone agitatissime.
«Eccolo... arriva», gridò il portavoce che riconobbi come l’avvocato venuto da me in precedenza.
«Deve portarselo via immediatamente, signore», gridò avvicinandosi a me un signore distinto, che sapevo essere il proprietario dello stabile al n. - di Wall Street. «Questi signori, miei inquilini, non lo tollerano più. Il signor B.», indicando l’avvocato, «l’ha messo fuori del suo ufficio, e lui adesso si ostina a funestare l’intera casa, sedendosi sulla ringhiera delle scale di giorno e dormendo nell’ingresso di notte. Ne sono tutti preoccupati; i clienti se ne vanno; serpeggia la paura di una sommossa. Bisogna intervenire e senza perdere tempo».
Atterrito da quel torrente di parole, indietreggiai e sarei stato contento di chiudermi a chiave nel mio nuovo studio. Invano continuai a insistere che Bartleby non era niente per me - non più di chiunque altro. Invano: risultavo essere io l’ultima persona che aveva avuto a che fare con lui e dovevo rendere conto della terribile situazione. Timoroso dunque di finire sui giornali (come minacciò oscuramente uno dei presenti), considerai la faccenda e, dopo un po’, dissi che, se l’avvocato mi avesse concesso di parlare allo scrivano in privato nel suo ufficio (dell’avvocato), quel pomeriggio mi sarei adoperato al massimo per liberarlo del fastidio all’origine delle sue recriminazioni.
Salendo le scale verso la mia vecchia tana, ecco Bartleby che in silenzio se ne stava seduto sulla ringhiera del pianerottolo.
«Che cosa fa qui, Bartleby?», chiesi.
«Sto seduto sulla ringhiera», rispose mitemente.
Gli feci cenno di entrare nell’ufficio dell’avvocato che subito se ne andò.
«Bartleby», dissi, «si rende conto che mi fa tribolare ostinandosi a occupare l’ingresso, dopo essere stato licenziato dall’ufficio?»
Nessuna risposta.
«Ora una delle due: o lei fa qualcosa, oppure qualcosa va fatto a lei. In che lavoro le piacerebbe impegnarsi? Vorrebbe riprendere a copiare per qualcuno?»
«No, preferirei non fare cambiamenti».
«Vorrebbe fare il contabile in una drogheria?»
«Si sta troppo al chiuso. No, non mi va di fare il contabile, ma non faccio il difficile».
«Troppo al chiuso?», esclamai. «Ma se lei se ne sta sempre rinchiuso!»
«Preferirei non fare il contabile», aggiunse come a sistemare subito quella piccola questione.
«Le andrebbe di lavorare in un bar? In quel mestiere non si sforza gli occhi».
«Non mi piacerebbe affatto, anche se, come ho già detto, non faccio il difficile».
L’insolita loquacità mi diede un’ispirazione. Ritornai alla carica.
«Le piacerebbe allora viaggiare per tutto il paese a riscuotere crediti per i commercianti? Le farebbe bene alla salute».
«No, preferirei fare qualcos’altro».
«Che ne direbbe di andare in Europa al seguito di qualche giovane gentiluomo per intrattenerlo con la sua conversazione... Le andrebbe?»
«Per niente. Non mi pare che ci sia niente di stabile. Mi piace stare fermo in un posto. Ma non faccio il difficile».
«E fermo in un posto allora se ne starà», esclamai perdendo la pazienza e sbottando di rabbia per la prima volta nella storia dei miei esasperanti rapporti con lo scrivano. «Se lei non se ne va da questo stabile prima di sera, sarò costretto - anzi sono costretto - a... a... ad andarmene io stesso!», conclusi in modo piuttosto incongruo, non sapendo con quale minaccia spaventarlo per scuoterlo da quella sua immobilità, inducendolo a obbedire. Disperando nell’esito di altri sforzi, stavo per lasciarlo precipitosamente, quando mi venne un ultimo pensiero... un’idea che non avevo mai del tutto accantonato in precedenza.
«Bartleby», dissi con il tono più gentile che in tutta quella concitazione mi riuscì di assumere, «vuole venire con me - non nel mio ufficio, ma nel mio appartamento - e restare lì finché non avremo trovato con comodo una sistemazione conveniente? Su, andiamoci adesso, subito».
«No, per il momento preferirei non cambiare nulla».
Non replicai ma, scansando tutti con una fuga subitanea e rapida, mi precipitai fuori da quello stabile, risalii di corsa Wall Street verso Broadway e, saltando sul primo omnibus, mi trovai presto al sicuro dagli inseguimenti. Non appena fui di nuovo calmo, capii distintamente di aver fatto tutto il possibile sia per venire incontro alle esigenze del padrone di casa e degli inquilini, sia per appagare il mio desiderio e obbligo morale di aiutare Bartleby e proteggerlo da una dura persecuzione. Mi sforzai allora di scrollarmi di dosso ogni ansia e di mettermi tranquillo; la coscienza approvava quel tentativo, sebbene non proprio come avrei voluto. Ero così timoroso di essere stanato dall’esasperato proprietario e dagli adirati inquilini che, affidando l’ufficio a Pince-Nez per qualche giorno, mi diressi in carrozza verso la parte alta della città, attraversando i sobborghi, arrivai a Jersey City e Hoboken, al di là del fiume, visitai in gran fretta Manhattanville e Astoria. Insomma vissi quasi tutto il tempo in carrozza.
Quando varcai di nuovo la soglia dello studio, ecco sulla mia scrivania un messaggio del padron di casa. Lo aprii con mani tremanti.
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