Mi informava che lo scrivente aveva fatto intervenire la polizia e condurre Bartleby alle Tombe per vagabondaggio. Siccome io su di lui ne sapevo più di ogni altro, mi pregava di recarmi in quel luogo e fare un’adeguata deposizione dei fatti. Questi ragguagli ebbero su di me reazioni contrastanti. Dapprima ne fui sdegnato, ma, alla fine, giunsi quasi ad approvare la decisione. Il temperamento sbrigativo ed energico del padron di casa lo aveva indotto ad adottare una procedura che non credo mi sarei mai deciso a seguire, eppure, estremo rimedio in quelle circostanze tanto insolite, sembrava l’unica soluzione.
Come appresi più tardi, il povero scrivano, avvertito che doveva essere tradotto alle Tombe, non aveva opposto la minima resistenza, ma vi si era adeguato con la sua pallida, imperturbabile mansuetudine.
Alcuni presenti, per compassione e curiosità, si erano uniti al gruppo e, capeggiato da un poliziotto a braccetto di Bartleby, il silenzioso corteo aveva sfilato attraverso le concitate strade in mezzo al frastuono e al caldo e all’allegria di mezzogiorno.
Lo stesso giorno in cui ricevetti quel messaggio, mi recai alle Tombe, ovvero, per esprimermi con precisione, al carcere giudiziario. Cercato il funzionario competente, dichiarai lo scopo della mia visita e venni a sapere che di fatto l’individuo descritto era lì trattenuto. Assicurai allora il funzionario che Bartleby era un uomo di assoluta probità, da commiserare profondamente, seppur eccentrico al di là di ogni dire. Esposi tutto quello che sapevo e conclusi suggerendo di tenerlo in reclusione con tutta l’indulgenza possibile, finché non si fosse trovata una soluzione meno aspra, sebbene invero non sapessi quale potesse essere. Se poi non si fosse deciso niente, lo avrebbe accolto l’ospizio dei poveri. Chiesi quindi di parlargli.
Non essendo imputato di nessun grave reato e avendo sempre un’aria docile e innocua, gli avevano concesso di aggirarsi liberamente per la prigione e soprattutto nei cortili erbosi interni. Fu quindi lì che lo trovai, da solo, in piedi nell’angolo più tranquillo, con il volto verso un alto muro, mentre tutto intorno, attraverso le strette feritoie delle finestre della prigione, mi parve di scorgere gli occhi di ladri e assassini che sbirciavano.
«Bartleby! »
«La conosco», disse senza voltarsi, «non ho nulla da dirle».
«Non sono stato io a portarla qui, Bartleby», dissi profondamente addolorato dall’implicito sospetto. «E per lei questo non dovrebbe essere un posto tanto abbietto. Non le viene imputata nessuna azione riprovevole per trovarsi qui. E guardi: non è poi così triste come si potrebbe pensare. Guardi: c’è il cielo, c’è l’erba».
«So dove mi trovo», rispose, ma non volle aggiungere altro, e così lo lasciai.
Mentre imboccavo di nuovo il corridoio, un omaccione dall’aria sanguigna, con un grembiule, mi si avvicinò e, indicando con il pollice sopra la sua spalla, disse: «E un suo amico?»
«Sì».
«Vuole morire di fame? Se sì, basta dargli la razione che passa il carcere, ed è fatta».
«Lei, chi è?», chiesi non sapendo come catalogare una persona che in un tale posto parlava in modo così poco ufficiale.
«Sono il vivandiere. I signori qui che hanno amici mi pagano, così io gli porto cose buone da mangiare».
«È vero?», chiesi volgendomi verso il secondino.
Lo confermò.
«Allora», dissi facendo scivolare qualche moneta d’argento nelle mani del vivandiere (perché così lo chiamavano), «le chiedo di prestare particolare attenzione al mio amico qui. Gli faccia avere il miglior pranzo che riesce a trovare. E con
lui sia più gentile che può».
«Che ne dice di presentarmi?», chiese il vivandiere guardandomi con un’espressione che sembrava significare l’impazienza di mostrarmi le sue buone maniere.
Pensando che potesse giovare allo scrivano, accondiscesi e, chiedendo al vivandiere come si chiamasse, mi avvicinai con lui a Bartleby.
«Bartleby, ecco un amico. Vedrà che le sarà molto utile».
«Servitor suo, signore, servitor suo», disse il vivandiere con un profondo inchino dietro il suo grembiule. «Spero che sarà di suo gusto qui, signore. Bel giardino... locali freschi... spero che rimarrà con noi per un po’... cercherò di renderglielo piacevole. Cosa vuole per pranzo oggi?»
«Preferisco non pranzare oggi», disse Bartleby voltandosi dall’altra parte. «Mi farebbe male, non sono abituato a pranzare». Così dicendo, si portò lentamente sul lato opposto del cortile e si mise davanti al muro cieco.
«Cosa vuoi dire?», disse il vivandiere rivolgendosi a me con sguardo attonito. «E un po’ tocco, vero? »
«Penso che sia un po’ dissennato», dissi con tristezza.
«Dissennato? Dissennato, dice? Beh, parola mia, ecco cosa pensavo: che quel suo amico lì era un falsario. Sempre pallidi e con l’aria da signori, quelli, i falsari. Mi fanno pena, signore, non posso farne a meno.
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