Conosceva Monroe Edwards?», aggiunse in tono mesto e tacque. Quindi, appoggiando la mano sulla mia spalla con gesto accorato, sospirò: «È morto tisico a Sing-Sing. Così non conosceva Monroe?»

«No, non ho mai frequentato falsari. Ma non posso restare oltre. Abbia cura del mio amico laggiù. Non ci perderà. Arrivederla».

Alcuni giorni dopo, di nuovo ammesso alle Tombe, percorsi i corridoi alla ricerca di Bartleby, ma senza trovarlo.

«L’ho visto da poco uscire dalla sua cella», disse un secondino, «forse se n’è andato a gironzolare in cortile».

Mi avviai in quella direzione.

«Cerca l’uomo che non parla?», chiese un altro secondino superandomi. «È disteso laggiù... dorme nel cortile. Non sono neanche venti minuti che l’ho visto sdraiarsi».

Il cortile, tranquillissimo, era precluso ai detenuti comuni. Le mura intorno, straordinariamente spesse, lo isolavano da ogni suono esterno. Lo stile egizio del complesso mi incombeva addosso con il suo cupore. Ma sotto i piedi cresceva una soffice erbetta prigioniera. Il cuore delle piramidi eterne - sembrava - dove, all’interno, per qualche strano incantesimo, attraverso le fenditure, dai semi lasciati cadere dagli uccelli fosse germogliata l’erba.

Rannicchiato in una strana posa ai piedi del muro, con le ginocchia piegate, disteso sul fianco, la testa appoggiata sulle pietre fredde, vidi il devastato Bartleby. Non si muoveva nulla. Mi fermai, quindi mi accostai a lui, mi chinai e vidi che i suoi occhi opachi erano aperti; per il resto, sembrava immerso in un sonno profondo. Qualcosa mi spinse a toccarlo. Tastai la mano e un brivido pungente mi guizzò su per il braccio e giù per la schiena fino ai piedi.

Il faccione rotondo del vivandiere sbucò dietro di me. «Il suo pranzo è pronto. Neanche oggi vuoi mangiare, eh? E che? Vive senza mangiare?»

«Vive senza mangiare», dissi e gli chiusi gli occhi.

«Ehi! Dorme, eh?»

«Con i re e i consiglieri», mormorai.

Non occorrerebbe dire molto di più in questa storia. L’immaginazione può facilmente dare l’idea dello spoglio rituale del seppellimento del povero Bartleby. Ma prima di accomiatarmi dal lettore, lasciatemi dire che, se questo racconto ha suscitato la curiosità di sapere chi fosse Bartleby e che vita avesse condotto prima che lo conoscesse il presente narratore, posso soltanto rispondere che io pienamente condivido tale curiosità, ma sono del tutto incapace di soddisfarla. Eppure a questo punto sono incerto se divulgare l’eco di una diceria che giunse al mio orecchio alcuni mesi dopo la morte dello scrivano. Su quali basi poggiasse non sono mai riuscito ad accertare; quindi, non sono in grado di dire quanto ci sia di vero. Ma poiché questa vaga notizia, comunque riportata, non mi sembra priva di una sua suggestione, forse lo stesso parrà agli altri; così ne farò un breve cenno. Ecco la notizia: Bartleby era stato un impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all’improvviso licenziato per un cambiamento nell’amministrazione. Quando penso a questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello - il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità... e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili.