Esistono molte coincidenze singolari che ho conosciuto nel corso della vita, non ultima quella che, esattamente quando Tacchino irradiava tutto il suo fulgore dal volto rosso e raggiante, proprio allora, in quel momento critico, aveva inizio la fase quotidiana nella quale, a mio avviso, le sue capacità professionali erano gravemente compromesse per ciò che restava delle ventiquattro ore della giornata. Non che allora rimanesse a girarsi i pollici, o mostrasse avversione al lavoro: lungi da ciò. Anzi: il guaio era che si affaccendava troppo. Cadeva in preda a una strana furia arruffata e pasticciona. Era sbadato nell’intingere la penna nel calamaio. Le macchie sui documenti cadevano tutte allora, dopo le dodici. Invero nel pomeriggio non era soltanto sventato e tristemente incline a fare macchie, ma, in alcuni giorni, ne combinava di peggio e si faceva rumoroso. In queste occasioni la sua faccia accesa avvampava ancora di più, quasi che sull’antracite avessero ammucchiato carbone tipo cannel. Con la sedia faceva chiasso a non finire; rovesciava lo scatolino della sabbia; nell’aggiustare le penne, per l’impazienza, le faceva a pezzi e le buttava per terra, preso dalla rabbia; si alzava, si sporgeva oltre il tavolo, metteva a soqquadro le carte in modo addirittura indecoroso: insomma davvero uno spettacolo triste in un uomo della sua età. Era tuttavia per me un collaboratore prezioso, che fino a mezzogiorno si dimostrava, come pochi, persona pronta, equilibrata e assidua, capace di svolgere una grande mole di lavoro di qualità non facilmente uguagliabile. Ecco perché chiudevo un occhio sulle sue bizzarrie, sebbene di tanto in tanto, invero, gli rivolgessi le mie rimostranze. Lo facevo con molto tatto, perché, mentre al mattino era il più civile, garbato, rispettoso degli uomini, nel pomeriggio, se provocato, rischiava di ricorrere a parole un po’ avventate, anzi insolenti. Ora tenendo, come facevo, in grande considerazione i suoi servizi mattutini, e deciso - a non perderli - tuttavia, sentendomi nello stesso tempo a disagio per i suoi modi pomeridiani così esuberanti - ed essendo un uomo pacifico, poco propenso a suscitare con i miei rimproveri reazioni disdicevoli da parte sua, mi decisi, un sabato pomeriggio (al sabato era peggio che negli altri giorni), ad accennargli, con molto garbo, che, forse, ora che invecchiava, avrebbe ben potuto ridurre l’orario di lavoro; insomma non era necessario che venisse in ufficio dopo le dodici, ma, una volta finito il pranzo, gli sarebbe convenuto ritornarsene a casa a riposarsi fino all’ora del tè. Niente da fare: insistette nel dedicarmi i suoi servizi pomeridiani. il volto gli si infervorò da far paura, mentre con piglio oratorio mi assicurava - gesticolando con un lungo righello all’altro capo della stanza - che, se erano utili i suoi servizi mattutini, non erano forse indispensabili quelli pomeridiani?
«Con tutto il rispetto, signore», disse Tacchino in questa occasione, «mi considero il suo braccio destro. Al mattino mi limito a ordinare in grande spiegamento le mie schiere, ma nel pomeriggio mi metto alla loro testa e audacemente attacco il nemico, così», e con il righello vibrò una violenta stoccata.
«Ma le macchie, Tacchino», insinuai timidamente.
«Vero, signore, ma con tutto il rispetto, guardi questi capelli! Sto invecchiando. Di sicuro non si può rimproverare a questi capelli grigi una macchia o due in un pomeriggio caldo, signore. La vecchiaia, anche quando imbratta una pagina, è onorevole. Con rispetto, signore, tutti e due stiamo invecchiando».
Difficile resistere a quell’appello alla mia solidarietà. Capivo in ogni caso che di andarsene non se ne parlava. Risolsi, perciò, di lasciarlo stare, decidendo tuttavia di provvedere a che nel pomeriggio trattasse documenti di minor conto.
Pince-Nez, il secondo della lista, era un giovanotto di circa venticinque anni, giallognolo, con basette e, nell’insieme, con un’aria piratesca. Ho sempre ritenuto che fosse la vittima di due influssi malefici: l’ambizione e la cattiva digestione. L’ambizione si manifestava in una certa insofferenza per i compiti di mero copista, che inammissibilmente usurpavano gli affari strettamente professionali, come la stesura originale di documenti legali. Quanto alla cattiva digestione, ne erano sintomi una saltuaria irascibilità e ringhiosa irritabilità che gli facevano arrotare i denti in modo udibile per errori commessi nel copiare: imprecazioni inutili, sibilate più che scandite a parole nell’incalzare del lavoro, e soprattutto la perpetua scontentezza per l’altezza della scrivania. Sebbene avesse un’inclinazione ingegnosa alla meccanica, Pince-Nez non riuscì mai ad adattare il tavolo alle proprie esigenze. Metteva sotto pezzi e pezzettini di vario genere, blocchetti di cartone: per ottenere uno squisito equilibrio arrivò all’estremo tentativo di utilizzare strisce di carta assorbente piegata. Ma inutili erano tutti i colpi di genio. Se, per dar sollievo alla schiena, alzava il ripiano del tavolo ad angolo acuto portandolo quasi sotto il mento e vi lavorava come chi usasse per scrivere il tetto spiovente di una casa olandese, allora dichiarava che così gli si bloccava la circolazione delle braccia. Se allora abbassava il tavolo fino alla vita e vi si piegava sopra per scrivere, ecco che insorgeva un acuto dolore alla schiena. Insomma, la verità era che Pince-Nez non sapeva quello che voleva.
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