Ecco...», e gli porsi il quarto esemplare.
«Preferirei di no», disse e lievemente scomparve dietro il paravento.
Rimasi di sale per qualche istante, lì, in piedi, alla testa della colonna degli impiegati seduti. Riavendomi, avanzai verso il paravento e gli chiesi ragione di una condotta tanto inconsueta.
«Perché rifiuta?»
«Preferirei di no».
Con chiunque altro sarei esploso, e, senza sprecare altro fiato, l’avrei cacciato con ignominia dal mio cospetto. Ma c’era in Bartleby qualcosa che non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in modo curioso, mi toccava e sconcertava. Cominciai a ragionare con lui.
«Sono le sue copie che ci accingiamo a controllare. Le risparmia fatica, perché un unico controllo serve per tutte e quattro. Si fa sempre così. I copisti sono tenuti a controllare le loro copie. Non è così? Non intende dire niente? Risponda!»
«Preferisco di no», rispose con voce flautata. Mi parve che, mentre mi rivolgevo a lui, egli soppesasse con attenzione ogni mia frase, ne comprendesse pienamente il significato, non potesse confutare l’ineluttabile conclusione, ma che, nello stesso tempo, una qualche suprema considerazione lo costringesse a rispondere in quel modo.
«Lei è deciso allora a non adeguarsi alla mia richiesta, una richiesta conforme all’uso comune e al comune buon senso?»
Mi fece brevemente capire che su quel punto la mia valutazione era corretta. Sì, la sua decisione era irrevocabile.
Non è infrequente che un uomo, urtato in modo inconsueto e violentemente irragionevole, cominci a dubitare delle proprie convinzioni fondamentali. Comincia, per così dire, a congetturare in modo vago che, per quanto strano, la ragione e il diritto stiano forse dall’altra parte. Di conseguenza, se sono presenti persone neutrali, si rivolge a costoro in cerca di un sostegno per la mente che vacilla.
«Tacchino», dissi, «che ne pensa? Non ho ragione?»
«Con rispetto, signore», rispose Tacchino nel suo tono più blando, «penso di sì».
«Pince-Nez, che cosa se ne pensa lei?»
«Penso che lo butterei fuori a calci».
(Il lettore attento e sensibile intuirà che, essendo mattina, la risposta di Tacchino è formulata con espressioni cortesi e pacate, ma che Pince-Nez replica con malumore. Ovvero, per ripetere una frase detta in precedenza, il cattivo umore di Pince-Nez era in servizio, mentre quello di Tacchino era in licenza.)
«Zenzero», dissi desideroso di raccogliere il consenso anche più insignificante, «che cosa ne pensi tu?»
«Penso, signore, che sia un po’ sfasato», rispose Zenzero con un sogghigno.
«Ha sentito quello che dicono», chiesi volgendomi verso il paravento. «Su, venga qui e faccia il suo dovere».
Non si degnò di rispondere. Rimasi a ponderare per un attimo, risentito e perplesso, ma ancora una volta, incalzato dal lavoro, decisi di rimandare a un momento di calma la valutazione del dilemma. Con qualche difficoltà riuscimmo a venirne a capo di quel lavoro di controllo, sebbene, ogni una o due pagine, Tacchino con deferenza esprimesse l’opinione che si trattava di procedura assai inconsueta, mentre Pince-Nez, agitandosi sulla sedia con nervosismo dispeptico, digrignava a denti stretti e sibilava di tanto in tanto improperi contro il cocciuto idiota dietro il paravento. E da parte sua (di Pince-Nez) quella era la prima e l’ultima volta che avrebbe fatto il lavoro di un altro senza essere pagato.
Bartleby, nel frattempo, se ne stava nel suo eremo, dimentico di tutto tranne che del documento davanti a sé.
Trascorsero alcuni giorni che videro lo scrivano impegnato in un altro lunghissimo lavoro. La stranezza del suo comportamento da un po’ di tempo a quella parte mi portò a osservare da vicino i suoi modi. Notai che non andava mai a pranzo, anzi che non andava mai da nessuna parte. Per quanto ne sapessi, non mi risaltava che fosse mai uscito dall’ufficio: eterna sentinella nel suo angolo. Osservai che verso le undici del mattino Zenzero avanzava verso il pertugio nel paravento di Bartleby, quasi fosse stato convocato da un cenno invisibile da dove ero seduto io. Il ragazzo allora usciva, facendo tintinnare qualche moneta, e riappariva con una manciata di focaccine che depositava nell’eremo, ricevendo due dolcetti per il fastidio.
«Vive di focaccine, allora», pensai. «Non fa mai un vero e proprio pranzo; sarà vegetariano. Macché, non mangia mai verdure, mangia soltanto focaccine allo zenzero». Cominciai allora a rincorrere con il pensiero fantasie sui presumibili effetti che avrebbe potuto produrre sull’organismo umano un nutrimento esclusivamente a base di focaccine allo zenzero. Si chiamano così perché uno dei principali ingredienti, e quello che dà il sapore, è lo zenzero. Ora che cos’è lo zenzero? Una cosa piccante, speziata. Bartleby era piccante e speziato? Nient’affatto. Lo zenzero quindi non aveva alcun effetto su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse.
Nulla esaspera una persona seria quanto la resistenza passiva.
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