Se l’individuo cui si resiste non è di temperamento disumano e chi gli resiste è una persona innocua nella sua passività, allora, il primo, quando è di buon umore, si sforza, nella sua immaginazione, di capire con la carità quanto si dimostra impossibile da spiegare con la ragione. Così, per lo più, consideravo Bartleby e le sue maniere. «Poveraccio», pensavo. «Non ha intenzioni malvagie; è chiaro che non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che le sue eccentricità - sono involontarie; Mi è utile. Riesco ad andarci d’accordo. Se lo mando via, è probabile che capiti con un principale meno indulgente; sarà trattato male, rischia addirittura di morir di fame. Sì. Ecco che, a basso prezzo, posso crogiolarmi nell’autocompiacimento. Mostrarmi amico di Bartleby, assecondarlo nella sua ostinazione mi costerà poco o niente, mentre io accumulo nell’animo quello che finirà per dimostrarsi un dolce bocconcino per la mia coscienza». Ma non sempre ero di questo umore. La passività di Bartleby a volte mi irritava. Mi sentivo stranamente pungolato a venire ai ferri corti con lui in un nuovo contrasto - a far scattare una qualche scintilla di rabbia che rispondesse alla mia. Ma tanto valeva che cercassi di accendere il fuoco strofinando le nocche contro un pezzo di sapone Windsor. Ma un pomeriggio in me prevalse l’impulso malvagio, e ne seguì questa breve scena:

«Bartleby», dissi, «quando quei documenti saranno stati copiati tutti, li confronterò insieme a lei».

«Preferirei di no».

«Come? Non vorrà incaponirsi in quel suo ostinato capriccio?».

Nessuna risposta.

Spalancando le porte pieghevoli lì vicino, esclamai, rivolto a Tacchino e Pince-Nez:

«Bartleby, per la seconda volta, dichiara di non voler esminare le sue copie. Che ne pensa, Tacchino?».

Era di pomeriggio, ricordatevene. Tacchino se ne stava seduto irradiando luce e calore come una pentola di rame; la testa calva fumava; le mani turbinavano fra le carte macchiate.

«Che ne penso?», ruggì Tacchino. «Ecco che cosa penso: vado dietro a quel paravento a fargli due occhi neri!».

Così dicendo, Tacchino, alzatosi in piedi, assunse una posizione da pugile. Stava per slanciarsi a mantenere la promessa, quando lo trattenni, allarmato per aver incautamente suscitato la sua combattività postprandiale.

«Si sieda, Tacchino», dissi, «e ascolti quello che ha da dire Pince-Nez. Che ne pensa, Pince-Nez? Non avrei buone ragioni per licenziare Bartleby su due piedi?»

«Con sua licenza, signore, è lei che deve decidere. Ritengo che la sua condotta sia assai inconsueta e, invero, ingiusta nei confronti miei e di Tacchino. Ma forse si tratta di un capriccio momentaneo».

«Ah!», esclamai. «Strano, lei ha cambiato idea allora... ne parla con molta indulgenza».

«Tutto merito della birra», intervenne Tacchino. «La comprensione è effetto della birra... io e Pince-Nez abbiamo pranzato insieme oggi. Guardi quanto sono comprensivo io, signore. Devo andare a fargli due occhi neri?»

«A Bartleby, immagino. No, non oggi, Tacchino», risposi. «Giù quei pugni, la prego».

Chiusi le porte e di nuovo mi avvicinai a Bartleby. Mi sentivo ancora più pungolato a sfidare la sorte.