Che ne pensa, Pince-Nez? Non avrei buone ragioni per licenziare Bartleby su due piedi?»
«Con sua licenza, signore, è lei che deve decidere. Ritengo che la sua condotta sia assai inconsueta e, invero, ingiusta nei confronti miei e di Tacchino. Ma forse si tratta di un capriccio momentaneo».
«Ah!», esclamai. «Strano, lei ha cambiato idea allora... ne parla con molta indulgenza».
«Tutto merito della birra», intervenne Tacchino. «La comprensione è effetto della birra... io e Pince-Nez abbiamo pranzato insieme oggi. Guardi quanto sono comprensivo io, signore. Devo andare a fargli due occhi neri?»
«A Bartleby, immagino. No, non oggi, Tacchino», risposi. «Giù quei pugni, la prego».
Chiusi le porte e di nuovo mi avvicinai a Bartleby. Mi sentivo ancora più pungolato a sfidare la sorte. Ardevo dalla voglia che mi si rivoltasse di nuovo contro. Ricordai che Bartleby non usciva mai dall’ufficio.
«Bartleby», dissi, «Zenzero è fuori; le spiace fare un salto all’ufficio postale?» (Erano tre minuti di strada). «Veda se c’è qualcosa per me».
«Preferirei di no».
«Non vuole andare?»
«Preferisco di no».
Barcollando andai alla scrivania e mi sedetti in profonda riflessione. Rispuntò in me un’animosità cieca. Potevo espormi a un altro ignominioso rifiuto da parte di quel disgraziato macilento e squattrinato? Dal mio dipendente? Che altra richiesta assolutamente ragionevole di sicuro rifiuterà ancora?
«Bartleby!».
Nessuna risposta.
«Bartleby», a voce più alta.
Nessuna risposta.
«Bartleby», con un ruggito.
Proprio come gli spettri obbediscono alle leggi delle invocazioni magiche, al terzo appello Bartleby sulla soglia del suo eremo.
«Vada di là e dica a Pince-Nez di venire da me».
«Preferisco di no», disse piano con voce rispettosa, e lieve sparì.
«Molto bene, Bartleby», dissi nel tono tranquillo, serenamente severo e controllato che annuncia l’irremovibile decisione di un incombente terribile castigo. In quel momento avevo una mezza intenzione del genere. Ma, dopo tutto, avvicinandosi l’ora di cena, pensai che fosse meglio prendere il cappello e ritornare a casa per quel giorno, assai combattuto, perplesso e turbato.
Devo confessarlo? La conclusione di tutta la faccenda fu questa: divenne ben presto un dato di fatto nel mio ufficio che lì aveva la sua scrivania uno scrivano giovane e pallido di nome Bartleby; che egli copiava per me alla tariffa normale di quattro centesimi al foglio (cento parole), che era in permanenza esentato dal controllare il proprio lavoro e che tale incombenza era trasferita a Tacchino e Pince-Nez, in omaggio, senza dubbio, alla loro superiore perspicacia; inoltre che mai, per nessuna ragione, il detto Bartleby doveva essere spedito a sbrigare neanche il più banale incarico e che, per quanto lo si supplicasse di svolgerlo, era scontato che «avrebbe preferito di no» - in altre parole che avrebbe rifiutato di punto in bianco.
Con il passare delle giornate mi riconciliai con Bartleby. La sua perseveranza, l’indipendenza da ogni vizio, la sua industriosità indefessa (tranne quando, in piedi, dietro il paravento, sceglieva di sprofondarsi in fantasticherie), l’immobilità, l’inalterabile compostezza in ogni circostanza, facevano di lui un acquisto prezioso. Ed ecco una cosa fondamentale: era sempre lì, il primo al mattino, ininterrottamente durante la giornata, l’ultimo alla sera. Avevo nella sua onestà una fiducia assoluta. I più preziosi documenti li sentivo perfettamente al sicuro in mano sua. Talvolta - senza dubbio - non riuscivo con tutta la buona volontà a non andare in escandescenze contro di lui. Era, infatti, oltremodo difficile tenere sempre a mente quelle strane abitudini, quei privilegi, quegli inauditi esoneri, che costituivano il tacito patto in base al quale Bartleby rimaneva nel mio ufficio. Di tanto in tanto, nella fretta di sbrigare un affare urgente, senza pensarci chiamavo Bartleby in tono secco e spiccio a mettere il dito su un pezzo di nastro rosso che ero in procinto di annodare per tenere insieme certi documenti. Superfluo dire, naturalmente, che da dietro il paravento veniva la sua consueta risposta: «Preferirei di no», e allora come avrebbe potuto un essere umano, con le comuni debolezze insite nella nostra natura, trattenersi dall’imprecare amaramente davanti a tanta caparbietà... tanta irragionevolezza? Comunque, a ogni successivo rifiuto che ricevevo, le probabilità che ripetessi l’inavvertenza tendevano a diminuire.
Va detto a questo punto che, secondo l’abitudine di quasi tutti gli avvocati con lo studio in stabili densamente popolati, destinati a uffici, molte persone avevano la chiave della mia porta. Una l’aveva una donna che viveva in soffitta, e ogni settimana ripuliva da cima a fondo i miei locali e ogni giorno li scopava e spolverava. Un’altra la teneva Tacchino per comodità.
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