Notai che non andava mai a pranzo, anzi che non andava mai da nessuna parte. Per quanto ne sapessi, non mi risaltava che fosse mai uscito dall’ufficio: eterna sentinella nel suo angolo. Osservai che verso le undici del mattino Zenzero avanzava verso il pertugio nel paravento di Bartleby, quasi fosse stato convocato da un cenno invisibile da dove ero seduto io. Il ragazzo allora usciva, facendo tintinnare qualche moneta, e riappariva con una manciata di focaccine che depositava nell’eremo, ricevendo due dolcetti per il fastidio.
«Vive di focaccine, allora», pensai. «Non fa mai un vero e proprio pranzo; sarà vegetariano. Macché, non mangia mai verdure, mangia soltanto focaccine allo zenzero». Cominciai allora a rincorrere con il pensiero fantasie sui presumibili effetti che avrebbe potuto produrre sull’organismo umano un nutrimento esclusivamente a base di focaccine allo zenzero. Si chiamano così perché uno dei principali ingredienti, e quello che dà il sapore, è lo zenzero. Ora che cos’è lo zenzero? Una cosa piccante, speziata. Bartleby era piccante e speziato? Nient’affatto. Lo zenzero quindi non aveva alcun effetto su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse.
Nulla esaspera una persona seria quanto la resistenza passiva. Se l’individuo cui si resiste non è di temperamento disumano e chi gli resiste è una persona innocua nella sua passività, allora, il primo, quando è di buon umore, si sforza, nella sua immaginazione, di capire con la carità quanto si dimostra impossibile da spiegare con la ragione. Così, per lo più, consideravo Bartleby e le sue maniere. «Poveraccio», pensavo. «Non ha intenzioni malvagie; è chiaro che non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che le sue eccentricità - sono involontarie; Mi è utile. Riesco ad andarci d’accordo. Se lo mando via, è probabile che capiti con un principale meno indulgente; sarà trattato male, rischia addirittura di morir di fame. Sì. Ecco che, a basso prezzo, posso crogiolarmi nell’autocompiacimento. Mostrarmi amico di Bartleby, assecondarlo nella sua ostinazione mi costerà poco o niente, mentre io accumulo nell’animo quello che finirà per dimostrarsi un dolce bocconcino per la mia coscienza». Ma non sempre ero di questo umore. La passività di Bartleby a volte mi irritava. Mi sentivo stranamente pungolato a venire ai ferri corti con lui in un nuovo contrasto - a far scattare una qualche scintilla di rabbia che rispondesse alla mia. Ma tanto valeva che cercassi di accendere il fuoco strofinando le nocche contro un pezzo di sapone Windsor. Ma un pomeriggio in me prevalse l’impulso malvagio, e ne seguì questa breve scena:
«Bartleby», dissi, «quando quei documenti saranno stati copiati tutti, li confronterò insieme a lei».
«Preferirei di no».
«Come? Non vorrà incaponirsi in quel suo ostinato capriccio?».
Nessuna risposta.
Spalancando le porte pieghevoli lì vicino, esclamai, rivolto a Tacchino e Pince-Nez:
«Bartleby, per la seconda volta, dichiara di non voler esminare le sue copie. Che ne pensa, Tacchino?».
Era di pomeriggio, ricordatevene. Tacchino se ne stava seduto irradiando luce e calore come una pentola di rame; la testa calva fumava; le mani turbinavano fra le carte macchiate.
«Che ne penso?», ruggì Tacchino. «Ecco che cosa penso: vado dietro a quel paravento a fargli due occhi neri!».
Così dicendo, Tacchino, alzatosi in piedi, assunse una posizione da pugile. Stava per slanciarsi a mantenere la promessa, quando lo trattenni, allarmato per aver incautamente suscitato la sua combattività postprandiale.
«Si sieda, Tacchino», dissi, «e ascolti quello che ha da dire Pince-Nez.
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