Inoltre era domenica, e qualcosa in Bartleby vietava di supporre che potesse trasgredire, con un’occupazione secolare, la dignità della giornata.
Il mio animo, tuttavia, non era tranquillo, e in preda a una irrequieta curiosità, ritornai infine davanti alla porta. Senza difficoltà infilai la chiave ed entrai. Bartleby non si vedeva. Guardai intorno con ansia, sbirciai dietro il suo paravento, ma era chiaro che se ne era andato. Esaminando con attenzione il luogo, conclusi che chissà da quanto tempo Bartleby doveva mangiare, vestirsi, dormire nel mio ufficio; il tutto senza un piatto, senza un letto, senza uno specchio. Il sedile imbottito di un vecchio divano traballante, in un angolo, mostrava la lieve impronta di una forma sparuta che lì si era coricata. Arrotolata sotto la sua scrivania trovai una coperta; sotto la grata vuota del camino, una scatola di lucido e una spazzola; su una sedia, una bacinella di latta con del sapone e un asciugamano cencioso; in un giornale alcune briciole di focaccine e un pezzetto di formaggio. «Sì», pensai, «è evidente che Bartleby si è installato qui, una sistemazione da scapolo, tutto per conto suo». Immediatamente mi sentii pervadere dal pensiero: «Che squallida solitudine, che isolamento ci sono qui, sotto i miei occhi! La sua povertà è grande, ma la sua solitudine, che cosa orribile! Pensaci. Alla domenica Wall Street è deserta come Petra; la notte, alla fine di ogni giornata, è il vuoto. Questo edificio, che nei giorni feriali brulica di operosità e di vita, di notte rimanda l’eco del nulla, e durante tutta la domenica è abbandonato. E Bartleby ha scelto questo luogo come propria casa; unico spettatore di una solitudine che ha visto gremita - una specie di novello, innocente Mario, che medita fra le rovine di Cartagine!».
Per la prima volta in vita mia fui sopraffatto da un senso di ineluttabile, struggente malinconia. Prima di allora non avevo mai sperimentato altro che un triste languore non sgradevole. Il vincolo della comune umanità mi trascinava irresistibilmente verso un cupo sconforto. Una malinconia fraterna! Sì, io e Bartleby eravamo entrambi figli di Adamo. Ricordai le vivide sete e i volti raggianti che avevo visto quel giorno, persone agghindate a festa che, simili a cigni, veleggiavano lungo quel Mississippi che è Broadway; e confrontandoli con il pallido copista, mi dissi: «Ah, la felicità corteggia la luce, ecco perché crediamo che il mondo sia lieto; ma l’infelicità si nasconde e si isola, ecco perché crediamo che non ci sia infelicità». Queste tristi fantasticherie - senz’altro chimere di un cervello malato e sciocco - condussero ad altri pensieri, più circostanziati, sulle eccentricità di Bartleby. Aleggiava intorno a me il presentimento di qualche strana scoperta. Mi parve di vedere la pallida forma dello scrivano, avvolta in un sudario gelido, giacere fra gente sconosciuta, incurante.
All’improvviso fui attratto dalla scrivania chiusa di Bartleby, con la chiave in bella mostra nella toppa.
«Non voglio fare nulla di male, non intendo soddisfare una crudele curiosità», pensavo. «La scrivania, inoltre, è di mia proprietà e anche quello che contiene. Così prenderò il coraggio di guardare dentro». Tutto era disposto in ordine metodico; i fogli in pile regolari. Gli scomparti erano profondi e, spostando i fascicoli delle pratiche, tastai fino in fondo. Dopo un poco toccai qualcosa e la trassi fuori. Era un vecchio fazzoletto di cotone, pesante e annodato. Aprendolo vidi che era il suo salvadanaio.
Mi sovvenni allora dei sommessi misteri che avevo notato in quell’uomo. Rammentai di non averlo mai sentito parlare se non per rispondere; di non averlo mai visto leggere - no, neppure un giornale - sebbene di tanto in tanto avesse abbastanza tempo per sé; ricordai che per lunghi intervalli se ne stava in piedi accanto alla sua pallida finestra dietro il paravento a guardare fuori il muro cieco di mattoni; ero sicuro che non andasse mai a una mensa o a una trattoria, mentre il suo volto esangue indicava chiaramente che non beveva mai birra, come faceva Tacchino, e neppure tè o perfino caffè, come gli altri esseri umani; che non andava mai in alcun posto particolare di mia conoscenza; che non usciva mai a fare una passeggiata, a meno che non ci fosse andato in quel momento; che aveva sempre evitato di dirmi chi fosse, da dove venisse, se avesse parenti al mondo; che, seppure così scarno ed emaciato, non si lamentava mai di star male. E soprattutto rammentavo una certa aria inconsapevole di pallido - come chiamarlo? - pallido sussiego, anzi un alone di austero riserbo, che mi aveva intimorito fino a ridurmi a quella docile accettazione delle sue eccentricità, quando avevo ormai paura di chiedergli di rendermi il più insignificante servizio, sebbene potessi capire, dalla protratta immobilità, che dietro il paravento se ne stava probabilmente in piedi, perso in una di quelle sue fantasticherie trasognate davanti al muro cieco.
Rimuginando tutte queste cose e collegandole alla recente scoperta che del mio ufficio Bartleby aveva fatto il suo alloggio permanente e la sua casa, non dimentico della sua morbosa suscettibilità, rimuginando tutto questo, prese a insinuarsi in me un sentimento di prudenza. Le mie prime emozioni erano state di pura malinconia e di sincera, autentica pietà ma, a mano a mano che la solitudine e l’isolamento di Bartleby crescevano nella mia immaginazione, quella stessa malinconia trascolorava in paura, quella pietà in repulsione. E così vero, e anche così terribile, che fino a un certo punto il pensiero o la vista dell’infelicità impegnano i nostri migliori sentimenti, ma, in certi casi speciali, oltre a un certo punto, non succede più.
1 comment