Sbagliano quanti asseriscono che invariabilmente ciò deriva dall’innato egoismo del cuore umano. Discende piuttosto da una certa impotenza a porre rimedio a un male estremo e organico. Per un essere sensibile la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisce che tale pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all’animo di sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era vittima di un disordine innato e incurabile. Avrei forse potuto soccorrere il corpo, ma non era il corpo a dolergli; era la sua anima che soffriva, e non potevo raggiungere la sua anima.

Lasciai cadere il proposito di andare alla chiesa della Santissima Trinità quel mattino. Mi sentivo in qualche modo indegno dopo le cose che avevo visto. Mi incamminai verso casa pensando a cosa avrei fatto con Bartleby. Alla fine mi risolsi su quanto segue: il mattino dopo gli avrei rivolto alcune pacate domande sul suo passato, ecc. e, se avesse rifiutato di rispondere in modo aperto e senza riserve (presumevo che avrebbe preferito di no), gli avrei allora dato una banconota da venti dollari oltre a quanto già eventualmente gli dovevo, dicendogli che i suoi servizi non erano più richiesti, ma che, se in qualunque altro modo avessi potuto aiutarlo, sarei stato felice di adoperarmi in tal senso; soprattutto se avesse desiderato ritornare là dove era nato, non importa dove fosse, avrei volentieri contribuito alle spese. Inoltre, se, una volta arrivato a casa, in un momento qualsiasi si fosse trovato bisognoso di aiuto, una sua lettera avrebbe certamente avuto risposta.

Giunse il mattino successivo.

«Bartleby», dissi rivolgendomi gentilmente a lui dietro il paravento.

Nessuna risposta.

«Bartleby», dissi in tono ancora più gentile, «venga qui. Non le chiederò di fare nulla che lei preferisca non fare... desidero soltanto parlarle».

A queste parole silenziosamente scivolò fuori.

«Vuole dirmi, Bartleby, dove è nato?»

«Preferirei di no».

«Non vuole raccontarmi niente di sé?»

«Preferirei di no».

«Quale ragionevole obiezione ha per non parlarmi? Ho nei suoi confronti sentimenti amichevoli».

Non mi guardava mentre parlavo, ma teneva gli occhi fissi sul busto di Cicerone, dietro alla mia sedia, circa a sei pollici sopra la mia testa.

«Che cosa mi risponde, Bartleby?», proseguii dopo aver aspettato una sua risposta per un bel po’ di tempo, mentre il suo volto rimaneva immobile, salvo un tremore quasi impercettibile delle labbra pallide e sottili.

«Per il momento preferisco non rispondere», disse e si ritirò nel suo eremo.

Fu una mia debolezza, lo confesso, ma in quel momento i suoi modi mi irritarono. Non soltanto mi sembrava che nascondessero un certo pacato disprezzo, ma la sua caparbietà mi pareva ingratitudine, considerando gli innegabili benefici e l’indulgenza che aveva avuto da me.

Ancora una volta me ne rimasi lì seduto a rimuginare su quello che avrei dovuto fare. Mortificato com’ero per il suo comportamento, e altrettanto risoluto a licenziarlo quando ero arrivato in ufficio, avvertivo un timore superstizioso che mi si agitava in fondo al cuore, vietandomi di mettere in atto quel proposito, dandomi del mascalzone se avessi osato proferire una sola parola amara contro di lui, il più derelitto degli uomini. Da ultimo, avvicinando con piglio confidenziale la mia sedia alla sua dietro il paravento, mi sedetti dicendo:

«Bartleby, non importa se non mi racconta la sua storia, ma mi consenta di supplicarla, da amico, di adeguarsi per quanto possibile alle abitudini dell’ufficio. Mi prometta che, domani o il giorno appresso, aiuterà a controllare i documenti: in breve, mi prometta che fra un giorno o due comincerà a essere un po’ ragionevole. Dica di sì, Bartleby».

«Per il momento preferirei non essere un po’ ragionevole», fu la risposta soavemente cadaverica.

Proprio in quel momento si aprirono le porte pieghevoli, e si avvicinò Pince-Nez. Aveva l’aria sofferente di chi ha passato una notte particolarmente brutta, dovuta a una digestione peggiore del solito. Colse le ultime parole di Bartleby.

«Preferirebbe di no, eh?», ringhiò Pince-Nez. «Lo preferirei io se fossi in lei, signore», rivolto a me, «lo preferirei io; gli darei io le preferenze, a quel mulo cocciuto! Scusi, signore, cos’è che preferisce non fare adesso?».

Bartleby non batté ciglio.

«Signor Pince-Nez, preferirei che lei si ritirasse per il momento», dissi.

In qualche modo, da un po’ di tempo, avevo preso involontariamente l’abitudine di usare la parola «preferire» a ogni piè sospinto, anche fuori luogo. Tremavo all’idea che la vicinanza dello scrivano avesse già, e in modo grave, compromesso il mio equilibrio mentale. Quali altre e peggiori aberrazioni non avrebbe potuto produrre? Questa apprensione aveva avuto la sua parte nella decisione di prendere drastiche misure.

Mentre Pince-Nez si allontanava con aria acida e scontrosa, si avvicinò beato e ossequioso Tacchino.

«Con rispetto, signore», disse, «ieri mi sono messo a pensare al nostro Bartleby. Secondo me, se solo lo preferisse, un quarto di buona birra al giorno farebbe molto nel curarlo e metterlo in sesto per aiutare a controllare i documenti»

«Così anche lei è rimasto contagiato dalla parola», dissi leggermente eccitato.

«Con rispetto, signore, quale parola?», chiese Tacchino ficcandosi nel ristretto spazio dietro il paravento e, così facendo, mandandomi a urtare lo scrivano. «Quale parola, signore?»

«Preferirei essere lasciato solo qui», disse Bartleby, quasi offeso per quell’invasione nel suo spazio privato.

«Ecco la parola, Tacchino», dissi, «eccola!».

«Oh, preferire? Oh, sì... strana parola. Non la uso mai io. Ma, signore, come stavo dicendo, se preferisse...»

«Tacchino», lo interruppi, «si ritiri, per favore». «Certamente, signore, se lei preferisce così». Mentre apriva la porta pieghevole per ritirarsi, Pince-Nez, lanciandomi un’occhiata dalla sua scrivania, mi chiese se preferissi che un certo documento venisse copiato su carta azzurra o bianca.