Due uomini salivano dallo stradone, e mentre uno stava seduto su un piccolo cammello, l'altro si piegava su una grande cavalletta le cui ali parevano mandassero giù e su i lunghi piedi del cavaliere. Il chiarore del fuoco, a misura che i due salivano, illuminava però le loro figure misteriose; e la prima era quella di Efix su un cavallo gobbo di bisacce e di guanciali, e l'altra quella di uno straniero la cui bicicletta scintillò rossa attraversando di volo il cortile.
Grixenda balzò in piedi appoggiandosi al muro tanto era turbata; anche la fisarmonica cessò di suonare.
“Donna Ester mia! Suo nipote.”
Le dame s'alzarono tremando e donna Ester parlò con una vocina che pareva il belato d'un capretto.
“Giacintino!... Giacintino!... Nipote mio... Ma non è una visione? Sei tu?...”
Egli era smontato davanti a loro e si guardava attorno confuso: sentì le sue mani prese dalle mani secche della zia, e sullo sfondo nero del muro vide il viso pallido e gli occhi di perla di Grixenda.
Poi tutte le donne gli furono attorno, guardandolo, toccandolo, interrogandolo: il calore dei loro corpi parve eccitarlo; sorrise, gli sembrò d'esser giunto in mezzo ad una numerosa famiglia, e cominciò ad abbracciare tutti. Qualche donna balzò indietro, qualche altra si mise a ridere sollevando il viso a guardarlo.
“È costume del tuo paese? Donna Ester, donna Ruth, ci ha scambiato con loro! Ci crede tutte sue zie!”
Efix intanto, tirati giù i guanciali, li portò dentro la capanna vuota passando di traverso per la stretta porticina. Grixenda lo aiutò a stenderli sul sedile in muratura, lungo la parete, e fu lei a spazzar la celletta e a preparare il lettuccio, mentre nell'altra capanna si udiva Giacintino rispondere rispettoso e quasi timido alle domande delle zie.
“Sissignora, da Terranova in bicicletta: cos'è poi? Un volo! Con una strada così piana e solitaria si può girare il mondo in un giorno. Sì, la zia Noemi è rimasta, vedendomi: non mi aspettava certo, e forse credeva che avessi sbagliato porta!”
Ogni sua parola e il suo accento straniero colpivano Grixenda al cuore. Ella non aveva ben distinto il viso del giovane arrivato da terre lontane, ma aveva notato la sua alta statura e i capelli folti dorati come il fuoco. E provava già un senso di gelosia perché Natòlia, la serva del prete, s'era cacciata dentro la capanna delle dame e parlava con lui.
Com'era sfacciata, Natòlia! Per piacere allo straniero si beffava persino delle capanne, che dopo tutto erano sacre perché abitate dai fedeli e appartenenti alla chiesa.
“Neanche a Roma ci son palazzi come questi! Guardi che cortine! Le han messe i ragni, gratis, per amor di Dio.”
“E i topi non li conta? Se si sente grattare i piedi, stanotte, non creda che sia io, don Giacì!”
Grixenda si morse le labbra e picchiò sulla parete per far tacere Natòlia.
“Ci sono anche gli spiriti. Li sente?”
“Oh, è una donna che picchia!”, disse semplicemente donna Ruth.
“Spiriti, topi e donne per me son la stessa cosa”, rispose Giacinto.
E Grixenda, di là, appoggiata alla parete di mezzo, si mise a ridere forte. Ascoltava la voce del giovane come aveva poco prima ascoltato il suono della fisarmonica e rideva per il piacere, eppure in fondo sentiva voglia di piangere.
Del resto tutti erano felici, ma d'una felicità grave, nella vera capanna delle dame.
“Mi pare di sognare”, diceva donna Ester, servendo da cenare al nipote, mentre donna Ruth lo guardava fisso con occhi lucidi, ed Efix traeva dalla bisaccia un bariletto di vino, e pur così curvo si volgeva a sorridere ai suoi padroni.
Giacinto mangiava, seduto sul sedile in muratura che serviva a più usi, da tavola e da letto: e credeva anche lui di sognare.
Dopo l'accoglienza fredda di Noemi s'era sentito ciò che veramente era, straniero in mezzo a gente diversa da lui; ma adesso vedeva le zie servirlo premurose, il servo sorridergli come ad un bambino, le fanciulle guardarlo tenere ed avide, - sentiva la cantilena della fisarmonica, intravedeva le ombre danzanti al chiaro del fuoco, e s'immaginava che la sua vita dovesse trascorrere sempre così, fantastica e lieta.
“Adattarsi bisogna”, disse Efix versandogli da bere.
“Guarda tu l'acqua: perché dicono che è saggia? Perché prende la forma del vaso ove la si versa.”
“Anche il vino, mi pare!”
“Anche il vino, sì! Solo che il vino qualche volta spumeggia e scappa; l'acqua no.”
“Anche l'acqua, se è messa sul fuoco a bollire”, disse Natòlia.
Allora Grixenda corse là dentro, prese per il braccio la serva e la trascinò via con sé.
“Lasciami! Che hai?”
“Perché manchi di rispetto allo straniero!”
“Grixè! Ti ha morsicato la tarantola ché diventi matta?”
“Sì, e perciò voglio ballare.”
Già alcune donne s'eran decise a riunirsi attorno al suonatore, porgendosi la mano per cominciare il ballo. I bottoni dei loro corsetti scintillavano al fuoco, le loro ombre s'incrociavano sul terreno grigiastro. Lentamente si disposero in fila, con le mani intrecciate, e sollevarono i piedi accennando i primi passi della danza; ma erano rigide e incerte e pareva si sostenessero a vicenda.
“Si vede che manca il puntello! Manca l'uomo. Chiamate almeno Efix!”, gridò Natòlia, e siccome Grixenda la pizzicava al braccio aggiunse: “Ah, ti punga la vespa! Anche a lui vuoi che si usi rispetto?”.
Ma al grido Efix era apparso e si avanzava battendo i piedi in cadenza e agitando le braccia come un vero ballerino. Cantava accompagnandosi:
A sa festa... a sa festa so andatu...
Arrivato accanto a Grixenda le prese il braccio, si unì alla fila delle danzatrici e parve davvero animare con la sua presenza il ballo: i piedi delle donne si mossero più agili, riunendosi, strisciando, sollevandosi, i corpi si fecero più molli, i visi brillarono di gioia.
“Ecco il puntello. Forza, coraggio!”
“E su! E su!”
Un filo magico parve allacciare le donne dando loro un'eccitazione composta e ardente. La fila si cominciò a piegare, formando lentamente un circolo: di tanto in tanto una donna s'avanzava, staccava due mani unite, le intrecciava alle sue, accresceva la ghirlanda nera e rossa dietro cui si muoveva la frangia delle ombre. E i piedi si sollevavano sempre più svelti, battendo gli uni sugli altri, percuotendo la terra come per svegliarla dalla sua immobilità.
“E su! E su!”
Anche la fisarmonica suonava più lieta ed agile. Grida di gioia echeggiarono, quasi selvagge, come per domandare al motivo del ballo una intonazione più animata e più voluttuosa.
“Uhì! Uhiahi!”
Tutti eran corsi a vedere, e là in fondo nell'angolo del cortile Grixenda distinse i capelli dorati di Giacinto fra i due fazzoletti bianchi delle zie.
“Compare Efix, fate ballare il vostro figlioccio!”, disse Natòlia.
“Quello è un puntello, sì!”
“Mettilo accanto alla chiesa e ti sembrerà il campanile.”
“E sta' zitta, Natòlia, lingua di fuoco.”
“Parlano più i tuoi occhi che la mia lingua, Grixè.”
“Il fuoco ti mangi le palpebre!”
“E state zitte, donne, e ballate.”
A sa festa... a sa festa so andatu...
“Uhì! Uhiahi!...”
Il grido tremolava come un nitrito, e le gambe delle donne, disegnate dalle gonne scure, e i piedi corti emergenti dall'ondulare dell'orlo rosso si movevan sempre più agili scaldati dal piacere del ballo.
“Don Giacinto! Venga!”
“E su! E su!”
“E venga! E venga! ”
Tutte le donne guardavano laggiù sorridendo. I denti brillavano agli angoli delle loro bocche.
Egli balzò, quasi sfuggendo alla prigionia delle due vecchie dame; arrivato però in mezzo al cortile si fermò incerto: allora il circolo delle donne si riaprì, si allungò di nuovo in fila, andò incontro allo straniero come nei giuochi infantili, lo accerchiò, lo prese, si richiuse.
Messo in mezzo fra Grixenda e Natòlia, alto, diverso da tutti, egli parve la perla nell'anello della danza; e sentiva la piccola mano di Grixenda abbandonarsi tremando un poco entro la sua, mentre le dita dure e calde di Natòlia s'intrecciavano forte alle sue come fossero amanti.
Anche il prete uscì dalla sua capanna, guardò qua e là, placido e rosso come un bambino ancora calvo, poi andò a sedersi accanto alle dame Pintor.
“Bel ragazzo, suo nipote, donna Ruth!”
Trasse la tabacchiera d'argento, la scosse, l'aprì e la porse nel cavo della mano prima a donna Ester, poi a donna Ruth, infine alla stessa Kallina.
“Bel ragazzo, donna Ester, ma mi raccomando, attenzione.”
Sollevò la sottana per rimettersi in tasca la tabacchiera e ripiegò e arrotolò il suo fazzoletto turchino, sbattendosene le cocche sul petto.
“Donna Ester, attenzione. Del resto anche noi abbiamo ballato quando avevamo ali ai piedi. E adesso che fa, vossignoria?”
Donna Ester piangeva di gioia, ma finse di starnutire.
“Sembra pepe il suo tabacco, prete Paskà!”
Il più felice di tutti era Efix. Sdraiato su un mucchio d'erba, in una delle muristenes vuote, gli pareva ancora di ballare e di ammirare Giacinto. E gli sorrideva come gli sorridevan le donne. Ecco, la figura del “ragazzo” aveva già preso nella sua vita il miglior posto come nel circolo della danza.
E riandava col pensiero fino al momento in cui era corso alla casa dei suoi padroni per vedere il figlio di Lia: che momento! Era stata così forte la sua gioia che neppure si rammentava che cosa aveva detto, che cosa aveva fatto. Solo rivedeva la figura fredda eppure inquieta di Noemi seguirlo e dirgli come in segreto:
“Andate, su, andate alla festa... Andate: vi aspettano”.
E li aveva mandati via, col viso rischiarato solo all'atto del congedo, su nella cornice del portone che si chiudeva davanti a lei.
Passando sotto il poderetto s'eran fermati un momento; ed Efix aveva additato con tenerezza d'amante la sua collina, il ciglione ove le canne tremavano rosee al tramonto, la capanna appiattata tra il verde ad aspettarlo.
“Io sto qui tutto l'anno.
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