Io sono stata a Nuoro molti anni fa, a cavallo. La strada è bella, e la città è bella, sì; l'aria è buona, la gente è buona. Là non ci sono febbri, come qui, e tutti possono lavorare e guadagnare. Tutti i forestieri son diventati ricchi, lassù, mentre, qui, pare d'essere in luogo di morti...”

“Sì, sì, è vero!”

Ella andò a prender le uova per fare una frittata.

“Vedi, qui non c'è neanche carne, tutti i giorni; di vino non se ne trova più... E questo amministratore del molino, come si chiama? Tu lo conosci?”

No, egli non lo conosceva, ma era certo che andando a Nuoro avrebbe ottenuto il posto.

Noemi sorrideva con rancore e con ironia, curva a punger la frittata: si fa presto a dire che si trova un posto! C'è tanta gente in cerca di posti!

“Ma tu hai lasciato quello che avevi?”, domandò in fretta senza sollevar gli occhi.

Giacinto non rispose subito; pareva molto preoccupato per l'esito della frittata che ella rivoltava cautamente.

Alcune gocce di olio caddero sulle brace, inondando la cucina di fumo grasso; poi la padella riprese a friggere tranquilla e Giacinto disse:

“Era una cosa tanto meschina! E neppur sicura... Con tanta responsabilità!...”.

Non disse altro, e Noemi non domandò altro. La speranza ch'egli se ne andasse presto a Nuoro la rendeva buona e paziente. Apparecchiò la tavola nell'attigua camera da pranzo abbandonata e umida come una cantina, e cominciò a servirlo scusandosi di non potergli offrire altro.

“In questo paese bisogna contentarsi...”

Giacinto schiacciava le noci con le sue forti mani, tendendo l'orecchio al tintinnio delle greggi che passavano dietro la casa. Era quasi notte; il Monte era diventato scuro e là dentro in quell'umida stanza dalle pareti macchiate di verde pareva d'essere in una grotta, lontani dal mondo. Le descrizioni che Noemi faceva della festa lo suggestionavano. Egli la guardava, un po' stanco e assonnato, e quella figura nera sullo sfondo ancora lucido del finestrino, coi capelli folti e le mani piccole appoggiate al tavolo melanconico, doveva ricordargli i racconti nostalgici di sua madre, perché cominciò a domandar notizie di persone del paese che erano morte o di cui Noemi non s'interessava affatto.

“Zio Pietro? Com'è questo zio Pietro? È il più ricco, vero? Quanto può possedere?”

“È ricco, sì, certo: ma è una testa! Superbo come un giudeo.”

“Egli dà denari a usura?”

Noemi arrossì, perché sebbene le relazioni col cugino fossero tese, le sembrava un'ingiuria personale dare dell'usuraio a un nobile Pintor.

“Chi te lo ha detto, questo? Ah, non dirlo neanche per scherzo...”

“Il Rettore e la sorella, però, sono usurai davvero. Sono ricchi? Quanto posseggono?”

“Neanche loro, che dici? Forse forse il Milese, ma un'usura giusta: il trenta per cento, non di più...”

“È questa un'usura giusta? Ah, com'è allora l'altra?”

Allora Noemi si curvò sul tavolo e mormorò:

“Anche il mille per cento... E anche di più, qualche volta”.

Ma invece di meravigliarsi, Giacinto si versò da bere e disse pensieroso:

“Sì, anche da noi l'usura e diventata enorme... Il nipote del cardinale Rampolla si è rovinato così!...”.

Dopo cena volle uscire. Domandò dov'era la posta, e Noemi lo condusse fino alla strada, indicandogli la piazzetta in fondo verso la casa del Milese.

Appena egli si fu allontanato, ella si guardò attorno e scese fino alla casupola della vecchia Pottoi. La porticina era aperta, ma dentro tutto era nero, e solo ai richiami timidi di Noemi la vecchia s'avanzò dalla profondità scura della stamberga con un tizzone acceso in mano. Il barlume rossastro faceva scintillare i suoi gioielli.

“Zia Pottoi, sono io: bisogna che mandiate subito qualcuno a chiamare Efix. È arrivato Giacinto. E poi voi verrete a dormire con me. Ho paura a star sola... con un forestiero...”

“Andrò a chiamare qualcuno per mandarlo al podere. Ma io dalla vossignoria non vengo, no: la casa non la lascio in balìa del folletto...”

E perché durante la sua assenza il folletto non entrasse, lasciò il tizzone acceso sulla soglia della porta.

 

 

Capitolo Quarto

 

Un gran fuoco di lentischi, come lo aveva veduto Noemi fanciulla, ardeva nel cortile di Nostra Signora del Rimedio, illuminando i muri nerastri del Santuario e le capanne attorno.

Un ragazzo suonava la fisarmonica, ma la gente, ch'era appena uscita dalla novena e preparava la cena o già mangiava entro le capanne, non si decideva a cominciare il ballo.

Era presto ancora: sul cielo lucido del crepuscolo spuntavano le prime stelle, e dietro la torretta del belvedere l'occidente rosseggiava spegnendosi a poco a poco.

Una gran pace regnava su quel villaggio improvvisato, e le note della fisarmonica e le voci e le risate entro le capanne parevano lontane.

Qua e là davanti ai piccoli fuochi accesi lungo i muri si curvava la figura nera di qualche donna intenta a cucinare.

Gli uomini, venuti alla vigilia per portare le masserizie, eran già ripartiti coi loro carri e i loro cavalli: rimanevano le donne, i vecchi, i bambini e qualche adolescente, e tutti, sebbene convinti d'esser là per far penitenza, cercavano di divertirsi nel miglior modo possibile.

Le dame Pintor avevano a loro disposizione due capanne fra le più antiche (tutti gli anni ne venivan fabbricate di nuove) dette appunto sas muristenes de sas damas , perché divenute quasi di loro proprietà in seguito a regali e donazioni fatte alla chiesa dalle loro ave fin dal tempo in cui gli arcivescovi di Pisa nelle loro visite pastorali alle diocesi sarde sbarcavano nel porto più vicino e celebravano messe nel Santuario.

Ecco ancora, fra una capanna e l'altra, all'angolo del cortile, il sedile di pietra addossato al muro ove zia Pottoi aveva veduto donna Maria Cristina corteggiata come una Barona da tutte le vassalle che si recavano in pellegrinaggio alla chiesa.

Adesso donna Ester e donna Ruth sedevano umili e nere come due monache col fazzoletto bianco in testa e le mani sotto il grembiale, pensando a Noemi lontana, a Giacinto lontano.

La loro cena era stata frugale: una zuppa di latte che non gonfiava lo stomaco e lasciava il pensiero lucido e puro come quel gran cielo di primavera. Eppure, di tanto in tanto, donna Ester aveva come un brivido di rimorso, un pensiero segreto quasi colpevole. Giacintino... la lettera scritta di nascosto... Accanto a loro, seduta per terra con le spalle al muro e le braccia intorno alle ginocchia, Grixenda rideva guardando il ragazzo che suonava la fisarmonica. Nella capanna attigua le parenti con cui ella era venuta alla festa cenavano sedute per terra attorno ad una bertula stesa come tovaglia, e mentre una di esse cullava un bambino che s'addormentava agitando le manine molli, l'altra chiamava la fanciulla.

“Grixenda, fiore, vieni, prendi almeno un pezzo di focaccia! Cosa dirà tua nonna? Che t'abbiamo lasciato morir di fame?”

“Grixenda, non senti che ti chiamano? Obbedisci”, disse donna Ester.

“Ah, donna Ester mia! Non ho fame... che di ballare!”

“Zuannantò! Vieni a mangiare! Non vedi che il tuo suono è come il vento? Fa scappar la gente.”

“Aspetta che le otri siano piene e vedrai!”, disse l'usuraia, uscendo sulla porticina a destra delle dame Pintor e pulendosi i denti con l'unghia.

Anche lei aveva finito di cenare e per non perder tempo si mise a filare al chiarore del fuoco.

Allora fra lei, le dame, la ragazza e le donne dentro cominciò la solita conversazione: come al paese durante tutto l'anno parlavano della festa, ora alla festa parlavano del paese.

“Io non so come avete fatto a lasciar la casa sola, comare Kallì; come?”, disse una ragazza alta che portava sotto il grembiale un vaso di latte cagliato, dono del prete alle dame Pintor.

“Natòlia, cuoricino mio! Io non ho lasciato in casa i tesori che ha lasciato in casa il tuo padrone il Rettore!”

“Corfu 'e mazza a conca! E allora datemi la chiave. Vado e frugo, in casa vostra, eppoi scappo nelle grandi città!”

“Tu credi che nelle grandi città si stia bene?”, domandò donna Ruth con voce grave, e donna Ester che aveva vuotato il vaso del latte e lo restituiva a Natòlia con dentro mezza pezza di mancia, si fece il segno della croce:

“ Libera nos Domine ”.

Entrambe pensavano alla stessa cosa, alla fuga di Lia, all'arrivo di Giacinto, e con sorpresa sentirono Grixenda mormorare:

“Ma se quelli che stanno nelle grandi città vogliono venir qui!”.

La gente cominciava ad uscir nel cortile; sulle porticine apparivan le donne che si pulivan la bocca col grembiale e poi rincorrevano i bambini per prenderli e metterli a dormire.

Una delle parenti di Grixenda andò dal suonatore di fisarmonica e gli porse una focaccia piegata in quattro.

“E mangia, gioiello! Cosa dirà tua nonna? Che non ti do da mangiare?”

Il ragazzo sporse il viso, strappò un boccone dalla focaccia e continuò a suonare.

Ma nessuno si decideva a cominciare il ballo tanto che Grixenda e Natòlia, irritate per l'indifferenza delle donne, dissero qualche insolenza.

“Si sa! Se non ci sono maschi non vi divertite!”

“Ci fosse almeno Efix il servo di donna Ruth. Anche quello vi basterebbe!”

“È vecchio come le pietre! Che me ne faccio di Efix? Meglio ballo con un ramo di lentischio!”

Ma d'un tratto il cane del prete, dopo aver abbaiato sul belvedere, corse giù urlando fuori del cortile e le donne smisero d'insolentirsi per andare a vedere.