“C'è dentro le bisacce qualche cosa che si rompe a toccarla, come voi...”
“La tocchi la saetta, don Predu!”, imprecò Natòlia, pur guardandolo con occhi languidi per tentarne la conquista.
Ah, se le riusciva! Si sarebbe così vendicata di Grixenda, che si era preso tutto per sé lo straniero.
Grixenda a sua volta sembrava eccitata per l'arrivo di don Predu.
“Quello, vede”, disse sottovoce a Giacinto, mentre attraversavano il cortile, “quello, suo zio, è un uomo che si diverte e spende, nelle feste. Non sta melanconico come lei! Cento lire ha, cento lire butta, così!”
Prese un po' d'acqua con le dita, e gliela buttò sul viso, senza ch'egli cessasse di sorridere con gli occhi dolci pieni di desiderio, mostrandole fra le labbra rosee i denti bianchi quasi volesse morderla.
“Che cosa son cento lire? Io ne ho spese mille in una notte e non mi sono divertito...”
Grixenda depose la secchia sul sedile, e si gettò sopra il bambino che le sorrideva dal giaciglio agitando le gambine in aria e tentando di afferrarsele con le manine sporche: gli baciò le cosce, affondando le labbra nella carne tenera ove i solchi segnavano striscioline rosee e viola; lo sollevò in alto, lo riabbassò fino a terra, lo sollevò ancora, lo fece ridere, lo portò fuori stringendoselo forte al petto.
Fuori Giacinto s'era messo a sedere a gambe aperte, e vi dondolava in mezzo le mani, ascoltando Kallina che lo invitava a mangiare con lei le fave cotte col latte: parlavano piano, come di cosa grave, ma donna Ruth si affacciò alla porticina con in mano una coscia d'agnello bianca di grasso col rognone violetto coperto dal velo, e interruppe il colloquio.
“Bisogna chiamar Efix perché faccia uno spiedo di legno: Giacintino, va'!”
Grixenda corse lei a chiamare il servo, gli si fregò addosso come una gattina, gli diede da baciare il bambino.
“Come sono contenta, zio Efix! Stanotte balleremo ancora! Ma guardate il vostro padroncino: pare faccia la corte a Kallina!”
Efix la guardava con tenerezza; vide Giacinto sollevar gli occhi pieni d'amore e di desiderio, e in cuor suo benedisse i due giovani. Sì, divertitevi, amatevi: alla festa si va per questo e la festa passa presto...
Seduto all'ombra del muro cominciò a intagliare lo spiedo: le donne ridevano intorno a lui, Giacinto come sempre taceva e pareva intento alla voce della fisarmonica che riempiva di lamenti e di grida il cortile. Ma arrivò Natòlia, dondolando i fianchi.
“Il mio padrone e don Predu invitano don Giacintino a pranzo. ”
Ed egli si alzò, dopo aver sbattuto bene l'orlo dei calzoni. Donna Ester lo seguì con gli occhi e guardò a lungo verso il belvedere, come affascinata dal luccichio dei bicchieri e del vassoio d'argento che Natòlia agitava lassù come uno specchio; l'idea che il cugino ricco facesse caso del nipote povero bastava per renderla felice.
Le donne lodavano Giacinto, e l'usuraia traendo il filo fra il pollice e l'indice e girando il fuso sul ginocchio diceva con dolcezza insolita:
“Un ragazzo così docile non l'avevo mai conosciuto. E bello, poi! Rassomiglia al Barone antico...”.
“A chi? Al Barone morto che vive ancora nel castello?”
Ma donna Ruth si mise l'unghia dell'indice sulla bocca: non bisognava parlar di morti, alla festa.
“Altro che spirito: è vivo e ha le mani che si muovono, non è vero, Grixè? Chi? Don Giacintino!”
Ma Grixenda, appoggiata al muro, col bimbo che le morsicava i bottoni della camicia, guardava anche lei il vassoio luccicante su nel belvedere, e i suoi occhi parevano affascinati come quelli della vecchia nonna quando nelle notti di luna spiavano il passaggio dei folletti giù verso il fiume.
Efix tornò ancora tre giorni dopo. Questa volta non era solo: quasi tutti quelli del paese scendevano alla festa, e le donne portavano sul capo vassoi con torte e cestini pieni di galline legate con nastri rossi.
Gli alberelli intorno erano carichi di frutti acerbi e la festa pareva si stendesse per tutta la valle.
Arrivando, Efix trovò il recinto intorno alle capanne già ingombro di carri con tende formate da sacchi e da lenzuola, e i rivenditori di dolci e di vino dritti accanto ai loro piccoli banchi all'ombra della chiesa.
Una fila di mendicanti vigilava il sentiero e le loro figure accovacciate, terree e turchine, alcune con orribili occhi bianchi, altre con piaghe rosse e tumori violacei, coi petti nudi come scorticati, con le braccia e le dita brancicanti nerastre come ramicelli bruciati, si disegnavano fra un cespuglio e l'altro sulla linea azzurrognola e lattea dell'orizzonte. Ma al di là l'occhio spaziava sul verde, e i gruppi dei cavalli e dei puledri rendevano più grandioso il paesaggio.
Il suono della fisarmonica arrivava fin laggiù; il motivo saltellante e voluttuoso richiamava alla danza, ma a volte si mutava in lamento, come stanco di gioia, come rimpiangendo il piacere che passa e gemendo per l'inutilità di tutte le cose: allora anche l'occhio melanconico delle giumente pareva pieno di una dolcezza nostalgica.
Efix si fermò un momento in mezzo a un gruppo di paesani del Nuorese: le donne sedevano in fila davanti alle capanne, aspettando l'ora della messa cantata, e i loro corsetti di scarlatto davano un tono rosso all'ombra del muro.
Ma la messa tardava. Su nel belvedere i preti ridevano e il vassoio di Natòlia passava e ripassava scintillando fra l'azzurro e il nero.
Efix trovò la capanna deserta: le padrone erano in chiesa ed egli andò a cercarle, ma si trovò preso in mezzo fra don Predu, il Milese e Giacinto, davanti a un rivenditore di vino, e vide tre bicchieri gialli intorno al suo viso.
“Bevi, babbeo!”
“Per me è presto.”
“Non è mai presto per un uomo sano. O sei malato?”
Don Predu gli batté così forte alle spalle che egli balzò avanti e il vino traboccò dai bicchieri e gli si versò addosso. Sia tutto per l'amor di Dio! Egli si asciugò le vesti con la mano e bevette; e con sorpresa e soddisfazione vide Giacinto trarre il portafogli e porgere al rivenditore un biglietto da cinquanta lire. Dio sia lodato, vuol dire che il ragazzo aveva denari davvero.
Del resto fu tutta una giornata di gioia: gioia composta e quasi melanconica nelle donne, verso le quali gli uomini, divertendosi rumorosamente fra loro, dimostravano una certa noncuranza.
Tutto il giorno la fisarmonica suonò accompagnata dai gridi dei rivenditori, dall'urlo dei giocatori di morra, dai canti corali o dai versi dei poeti estemporanei.
Raccolti entro una capanna, seduti per terra a gambe in croce intorno a una damigiana verso cui si volgevano come a un idolo, i poeti improvvisavano ottave pro e contro la guerra di Libia: eran parecchi e si davano il turno, e intorno a loro si accalcavano uomini e ragazzi: di tanto in tanto qualcuno si curvava per prendere di terra un bicchiere di vino.
“ Bibe, diauu!”
“Salute!”
“Che possiamo conoscerla cento anni di seguito, questa festa, sani e allegri.”
“ Bibe , forca!”
Il poeta Serafino Masala di Bultei, col profilo greco e vestito come un eroe di Omero, cantava:
Su turcu non si cheret reduire,
Anzis pro gherrare est animosu,
S'arabu inferocidu est coraggiosu,
Si parat prontu né cheret fuire...
I bicchieri passavano da una mano all'altra; qualche donna s'affacciava timidamente alla porta.
E Gregorio Giordano di Dualchi, bel giovane rosso vestito come un trovatore, si lisciava i lunghi capelli con tutte e due le mani, se li tirava sul collo, e cantava quasi singhiozzando come una prèfica:
Basta, non poto pius relatare,
Discurro su chi poto insa memoria,
Chi àppana in dogni passu sa vittoria.
De poder tottu l'Africa acquistare;
Tranquillos e sanos a torrare,
Los assistansos Santos de sa Gloria,
E cun bona memoria e vertude
Torren a dom'issoro chin salude!
Applausi e risate risuonavano; tutti ridevano ma erano commossi.
All'ombra della chiesa Efix invece sentiva altri gruppi di paesani parlare dell'America e degli emigranti.
“L'America? Chi non l'assaggia non sa cosa è. La vedi da lontano e ti sembra un agnello da tosare: ci vai vicino e ti morsica come un cane.”
“Sì, fratelli cari, io ci andai con la bisaccia a metà piena e credevo di riportarla colma; la riportai vuota!”
Un Baroniese smilzo alto e nero come un arabo, invitò Efix a bere e gli raccontò episodi della guerra, di cui era reduce.
“Sì”, diceva, guardandosi le mani, “ho strappato il ciuffo ad un Sirdusso , uno che adorava il diavolo. Io avevo fatto voto di prenderglielo, il ciuffo; di prenderlo intero, con la pelle e con tutto. E così lo presi, che possiate vedermi cieco, se mentisco! Lo portai al mio capitano, tenendolo come un grappolo; sgocciolava sangue nero come acini d'uva nera. Il capitano mi disse: bravo, Conzinu!”
Efix ascoltava, con in mano una rosellina di macchia. Si fece il segno della croce con lo stelo del fiore, e disse:
“Ti confesserai, Conzì! Hai ucciso un uomo!”.
“Nella guerra non è peccato. È forse di nascosto? No.”
Allora cominciarono a discutere, ed Efix guardava la rosellina come parlando a lei sola.
“Ad uccidere tocca a Dio.”
Ma dovette interrompere la discussione perché da lontano donna Ester gli accennava di avvicinarsi. Era l'ora del pasto; Giacinto era invitato dal prete e tutti, chi più chi meno, mangiavano in buona compagnia. Dalle capanne uscivan nuvole di fumo odoroso d'arrosto.
L'angolo più tranquillo era quello delle dame. Sedute nella loro capanna mangiavano con Efix l'arrosto di agnello e parlavano di Noemi lontana e di Giacinto, del prete e del Milese, sorridendo senza malizia.
“I primi giorni”, disse donna Ruth. tagliando una piccola torta in tre porzioni eguali, “Giacinto parlava sempre d'andarsene a Nuoro, ove diceva d'aver un posto nel molino. Adesso, da due giorni non ne parla più.”
“Ma è che da due giorni non si vede quasi più; e sempre con Predu e con altri compagni.”
“Lasciamolo divertire”, disse Efix.
Fuor dalla porta si vedeva Kallina seduta, insolitamente oziosa sulla sua pietra, e Grixenda col bambino in grembo, pallida e triste fissava il belvedere del prete.
Ah, Giacinto si divertiva lassù, dimentico di lei: e a lei pareva di star accovacciata sul limite di un deserto, davanti a un miraggio.
Efix uscì e le disse:
“Perché non ti diverti?”:
Ella accomodò sulla cuffietta del bimbo il nastrino giallo contro il malocchio, e gli occhi le si riempivano di lagrime.
“Per me è finito tutto!”
Dalle capanne le parenti la chiamavano:
“Grixenda, vieni! Che dirà tua nonna vedendoti così magra? Che non ti diamo da mangiare?”.
“Eh, bocconi soli ci vogliono”, disse Kallina a Efix, dopo averlo chiamato ammiccando. “Vieni, Efix, bevi un bicchiere di vernaccia. Sai chi me l'ha regalata? Il tuo padroncino. Buono come il pane, e affabile: ma senti, bisogna dirgli che Grixenda non è adatta per lui!”
“E lasciateli divertire! Siamo alla festa!”
“Qui si viene a far penitenza, non a peccare. Sì, le parenti danno da mangiare a Grixenda, ma non badano ov'essa va giorno e notte con don Giacinto.”
“E le mie padrone? Non s'accorgono?”
“Loro? Sono come i santi di legno nelle chiese. Guardano, ma non vedono: il male non esiste per loro.”
“È vero!”, ammise Efix. Bevette, ma si sentì triste e andò a coricarsi sotto un lentischio della brughiera.
Di là vedeva l'erba alta ondulare quasi seguendo il motivo monotono della fisarmonica, e i cavalli immobili al sole come dipinti sullo smalto azzurro dell'orizzonte.
Le voci si perdevano nel silenzio, le figure sfumavano nella luce: ed eccone una di donna sorgere accanto a un cespuglio: un'altra di uomo la raggiunge e le si accosta tanto che formano un'ombra sola.
Efix sentì un brivido alla schiena, eppure staccò una margheritina, ne masticò lo stelo e guardò senza invidia Grixenda e Giacinto abbracciati.
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