Dio li benedica e li avvolga sempre così, di sole e di luce.
Nel pomeriggio la festa fu ancora più animata. Gli uomini si mostravano più espansivi con le donne, trascinandole al ballo, e il sole obliquo tingeva di rosa il cortile che ronzava come un alveare.
Al cader del sole il popolo si raccolse nella chiesa e migliaia di voci salirono in una sola, fondendosi come fuori si fondevano i profumi dei cespugli; Efix, inginocchiato in un angolo, provava la solita estasi dolorosa: e accanto a lui Grixenda, inginocchiata, rigida come un angelo di legno, cantava gemendo d'amore.
La luce rossa dei crepuscolo, vinta verso l'altare dal chiaror dei ceri, copriva la folla come di un velo di sangue, ma a poco a poco il velo si fece nero, rischiarato appena dall'oro dei ceri. La folla non si decideva ad uscire, sebbene il prete avesse finito le sue orazioni, e continuava a cantare intonando le laudi sacre. Era come il mormorio lontano del mare, il muoversi della foresta al vespero: era tutto un popolo antico che andava, andava, cantando le preghiere ingenue dei primi cristiani, andava, andava per una strada tenebrosa, ebbro di dolore e di speranza, verso un luogo di luce, ma lontano, irraggiungibile.
Efix con la testa fra le mani cantava e piangeva. Grixenda guardava avanti a sé con gli occhi umidi che riflettevano la fiammella dei ceri, e cantava e piangeva anche lei. E la pena dell'uno era uguale a quella dell'altra: e la pena di entrambi era la stessa di tutto quel popolo che ricordava come il servo un passato di tenebre e sognava come la fanciulla un avvenire di luce: pena d'amore.
Poi tutto fu silenzio.
Zuannantoni, impaziente di riprendere la fisarmonica, fu il primo a balzar fuori con la berretta in mano. Ma sulla porta si fermò, guardò in su e diede un grido. Tutti si precipitarono a guardare. Era la luna nuova che rasentava il muro e pareva volesse scender là dentro.
Dopo cena ricominciarono i canti e le grida attorno ai fuochi: ballava persino don Predu, rendendo felici tutte le donne che speravano d'esser scelte da lui.
Solo Giacinto non ballava; seduto accanto all'usuraia faceva dondolar le mani fra le sue ginocchia, pallido e stanco: intanto Efix sentiva le donne discutere su chi quel giorno aveva più speso denari e s'era più divertito, e qualcuno diceva:
“È don Predu”.
“No, è don Giacinto. Più di trecento lire, ha speso. Ma è ricco. Dicono che ha una miniera d'argento; ma come s'è divertito!”
“Pagava da bere a tutti, anche a chi non conosceva.”
“Perché lo fa?”
“Oh bella, perché chi ne ha ne spende.”
Efix provava soddisfazione e inquietudine. Sedette accanto a Giacinto e gli riferì le chiacchiere delle donne.
“Una miniera d'argento? Sì, rende, ma non come una miniera di petrolio. Una signora che conosco io sognò che in tal posto ce n'era una, in un terreno d'un signore decaduto. Questi era così disperato che stava per uccidersi. Ma scavò dove quella aveva sognato e adesso è così ricco che passa ventimila lire al mese a una donna...”
“Perché non ha sposato quella del sogno? O aveva già marito?”, domandò Efix pensieroso.
Le donne ballavano: si vedeva Grixenda col viso acceso ridere come la creatura più folle della festa; ed Efix mormorò toccando il ginocchio di Giacinto:
“Vossignoria... dicono... guarda quella ragazza... È buona, ma è povera. Eppoi anche orfana...”.
“La sposerò”, disse Giacinto, ma guardava per terra e pareva sognasse.
Capitolo sesto
Nei tempi di carestia, cioè nelle settimane che precedevano la raccolta dell'orzo, e la gente, terminata la provvista del grano, ricorre all'usura, la vecchia Pottoi andava a pescare sanguisughe. Il suo posto favorito era una insenatura del fiume sotto la Collina dei Colombi presso il poderetto delle dame Pintor.
Stava là ore ed ore immobile, seduta all'ombra di un ontano, con le gambe nude nell'acqua trasparente verdognola venata d'oro; e mentre con una mano teneva ferma sulla sabbia una bottiglia, con l'altra si toccava la collana.
Di tanto in tanto si curvava un poco, vedeva i suoi piedi ondulare grandi e giallastri entro l'acqua, ne traeva uno, staccava dalla gamba bagnata un acino nero lucente che vi si era attaccato, e lo introduceva nella bottiglia spingendovelo giù con un giunco. L'acino s'allungava, si restringeva, prendeva la forma di un anello nero: era la sanguisuga.
Un giorno, verso la metà di giugno, ella salì fino alla capanna di Efix. Faceva un gran caldo e la valle era tutta gialla sotto il cielo d'un azzurro velato.
Il servo intrecciava una stuoia, all'ombra delle canne, con le dita che tremavano per la febbre di malaria; vedendo la vecchia che gli si sedeva ai piedi con la bottiglia in grembo, sollevò appena gli occhi velati e attese rassegnato, quasi sapesse già quello che ella voleva da lui.
“Efix, sei un uomo di Dio e puoi parlarmi con la coscienza in mano. Che intenzioni ha il tuo padroncino? Egli viene a casa mia, si mette a sedere, dice al ragazzo: suona la fisarmonica (gliel'ha regalata lui), poi dice a me: manderò zia Ester, a chiedervi la mano di Grixenda; ma donna Ester non si vede, e un giorno che io sono andata là, donna Noemi mi ha preso viva, e morta m'ha lasciata, tanti improperi mi ha detto. Tornata poi a casa, Grixenda m'ha anche lei mancato di rispetto, perché non vuole che vada dalle tue padrone. Io non so da qual parte rivolgermi, Efix; non siamo noi che abbiamo chiamato il ragazzo dalla strada: è venuto lui. Kallina mi dice: cacciatelo fuori. Ma lei lo caccia fuori, quando ci va?”
Efix sorrise.
“Là non va certo per far all'amore!...”
Allora la vecchia sollevò irritata il viso e il suo collo parve allungarsi più del solito, tutto corde.
“E in casa mia viene forse a far all'amore? No; egli è un ragazzo onesto. Neppure tocca la mano a Grixenda. Essi si amano come buoni cristiani, in attesa di sposarsi.
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