Efix, non ne posso più... Che hai fatto! Che hai fatto! ”.
“Che ho fatto?”
“Non so bene neppur io. È venuta la serva di zio Pietro, portando un cestino, dicendo che lo avevi consegnato tu al suo padrone. C'erano zia Ruth e zia Noemi in casa, poiché zia Ester era alla novena: presero il cestino e ringraziarono la serva, e le diedero anche la mancia; ma poi zia Noemi fu colta da uno svenimento. E zia Ruth la credeva morta, e gridò. Corsero a chiamare zia Ester; ella venne spaventata, e per la prima volta anche lei mi guardò torva e mi disse che son venuto per farle morire. Oh Dio, Dio, oh Dio, Dio! Io bagnavo il viso di zia Noemi con l'aceto e piangevo, te lo giuro sulla memoria di mia madre; piangevo senza sapere perché. Finalmente zia Noemi rinvenne e mi allontanò con la mano; diceva: era meglio fossi morta, prima di questo giorno. Io domandavo: perché? perché, zia Noemi mia, perché? E lei mi allontanava con una mano, nascondendosi gli occhi con l'altra. Che pena! Perché son venuto, Efix? Perché?”
Il servo non sapeva rispondere. Adesso vedeva, sì, tutto l'errore commesso, consegnando il cestino a don Predu e pensava al modo di rimediarvi, ma non vedeva come, non sapeva perché, e ancora una volta sentiva tutto il peso delle disgrazie dei suoi padroni gravare su lui.
“Sta' quieto”, disse infine. “Tornerò io domani al paese e rimedierò tutto.”
Allora Giacinto riprese
“Tu devi dire alle zie che non son stato io a consigliarti di incaricare zio Pietro della consegna del cestino. Esse credono così. Esse credono, e zia Noemi specialmente, che io cerchi l'amicizia di zio Pietro per far dispetto a loro. Io sono amico di tutti; perché non dovrei esserlo di zio Pietro? Ma le zie sanno che egli vuole comprare il poderetto. Che colpa ne ho io? Sono io che voglio venderlo, forse?”
“Nessuno vuol venderlo. Perché parlare di queste cose? Ma tu, anima mia, tu... tu l'altra sera dicevi questo, dicevi quest'altro: promettevi mari e monti, per far felici le tue zie; e ieri sera, invece, sei andato a giocare...”
“Giocando tante volte si guadagna. Io voglio guadagnare, appunto per loro : no, non voglio più essere a carico loro. Voglio morire... Vedi” aggiunse sottovoce “adesso, dopo la scena di oggi, mi pare di essere ancora nella casa del capitano... Dio mi aiuti, Efix!”
Efix ascoltava con terrore: sentiva d'essere di nuovo davanti al destino tragico della famiglia alla quale era attaccato come il musco alla pietra, e non sapeva che dire, non sapeva che fare.
“Oh”, sospirò profondamente Giacinto. “Ma di qui me ne vado certo; non aspetto che mi caccino via! Sono senza carità, le mie zie, specialmente zia Noemi. Non m'importa, però: essa non ha perdonato mia madre; come può perdonare me? Ma io, ma io...”
Abbassò la testa e trasse di saccoccia una lettera.
“Vedi, Efix? So tutto. Se zia Noemi non ha perdonato mia madre dopo questa lettera, come può aver l'animo buono? Tu lo sai cosa c'è, in questa lettera, l'hai portata tu, a zia Noemi. Ed io gliel'ho presa: stava sul lettuccio, il giorno del mio arrivo: io ne lessi qualche riga, poi la presi dall'armadio, oggi... È mia; è di mia madre; è mia... Non è degna di stare là questa lettera...”
“Giacinto! Dammela!”, disse Efix stendendo le mani. “Non è tua! Dammela: la riporterò io, alle mie padrone.”
Ma Giacinto stringeva la lettera fra le palme delle mani e scuoteva la testa. Efix cercò di prendergliela: supplicava, pareva domandasse un'elemosina suprema.
“Giacinto, dammela.
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