Beh, io entro.
Se m’uccide, si sarà solo preso
una giusta rivalsa. Se m’accetta,
mi metterò a servire il suo paese.
(Esce)
SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio
Musica da dentro
Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena
PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio!
Qui mi paiono tutti addormentati!
(Esce)
Entra un altro SERVO
SECONDO SERVO - (Chiamando)
Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto!
Il padrone lo vuole.
Entra CORIOLANO
CORIOLANO - Bella casa...
Dal banchetto promana un buon odore;
ma io non sembro certo un convitato.
Rientra il PRIMO SERVO
PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni?
Qui per te non c’è posto. Fila, prego.
(Esce)
CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito
da questa gente miglior trattamento(164).
Rientra il SECONDO SERVO
SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere
ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui
figuri come te? Va’ fuori, via!
CORIOLANO - Via tu, piuttosto.
SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci!
CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi.
SECONDO SERVO - Ah!
Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai:
ti faccio dire io due paroline.
Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO
TERZO SERVO - Chi è costui?
PRIMO SERVO - Uno strano figuro
quale mai m’è caduto sotto gli occhi.
Non mi riesce di mandarlo via.
Fammi il favore, chiama tu il padrone.
TERZO SERVO - (A Coriolano)
Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori.
CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi.
Non ti farò alcun danno al focolare.
TERZO SERVO - Chi sei?
CORIOLANO - Un nobile.
TERZO SERVO - Sarai un nobile,
ma sei meravigliosamente povero.
CORIOLANO - È vero.
TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato,
ti prego, scegliti qualche altro posto.
Questo non è per te. Sgombrare, via!
CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende,
va’ ad ingozzarti con i loro avanzi.
(Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina)
TERZO SERVO - Che! Non vuoi?
(Al Secondo Servo)
Per favore, di’ al padrone
che strano convitato ha dentro casa.
SECONDO SERVO - Vado subito.
(Esce)
TERZO SERVO - (A Coriolano)
Dove stai di casa?
CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165).
TERZO SERVO - Il baldacchino?
CORIOLANO - Sì.
TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino?
CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi(166).
TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi?
Che razza di somaro è mai costui!
Allora alloggi pure con le taccole(167)?
CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio
del tuo padrone.
TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare?
Vuoi avere a che far col mio padrone?
CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio
dell’aver a che far con la tua ganza.
Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola
col tuo tagliere. Lèvati di mezzo!
(Lo caccia via percuotendolo)
Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO
AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo?
SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano)
È qui, padrone.
L’avrei cacciato a calci come un cane;
non l’ho fatto per non recar disturbo
alle lor signorie che son di là.
(Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte)
AUFIDIO - (A Coriolano)
Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?...
Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei.
CORIOLANO - (Scoprendosi il volto)
Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto,
e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi
per quel che sono, ti dirò il mio nome.
AUFIDIO - Cioè?
CORIOLANO - Un nome che non suona musica
agli orecchi dei Volsci, e soprattutto
deve suonar ben aspro a quelli tuoi.
AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera
e impresso in faccia il segno del comando.
Anche se il tuo sartiame va a brandelli,
la struttura completa dello scafo
rivela nobiltà. Qual è il tuo nome?
CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi.
Ancora dunque non mi riconosci?
AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome.
CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo
che ha procurato a te in particolare
e a tutti i Volsci assai malanni e lutti.
N’è testimone questo soprannome:
Coriolano, che m’hanno dato a Roma(168).
Il gravoso servizio militare,
i pericoli estremi da me corsi
e le gocce di sangue che ho versato
per l’irriconoscente patria mia
m’hanno fruttato, quale ricompensa,
nulla di più che questo soprannome:
un bel ricordo, una testimonianza
per te di tutto l’odio ed il rancore
che dovresti portarmi. Questo nome
è però tutto ciò che mi rimane:
le crudeltà, l’invidia della plebe
secondata da nobili vigliacchi
che m’han lasciato a lottare da solo,
si sono divorate tutto il resto
ed han permesso ch’io fossi cacciato
da Roma per i voti degli schiavi.
È stato questo estremo di sventura
che m’ha portato qui, al tuo focolare;
non già con la speranza - non fraintendermi -
d’aver salva la vita,
ché, se avessi paura della morte,
e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi,
quello sei tu, ma per puro dispetto,
e per rifarmi in pieno con coloro
che m’han bandito. E son davanti a te.
Se tu covi nel cuore una rivincita
che ti ripaghi dei torti subiti,
se brami cancellare la vergogna
delle mutilazioni che si vedono
in ogni angolo del tuo paese,
non esitare a trarre beneficio
dalla mia situazione di disgrazia:
usala in modo da trarre un vantaggio
da quanto io possa far per vendicarmi.
Perch’io ti dico che combatterò
contro l’incancrenito mio paese
con la rabbia dei diavoli d’inferno.
Ma se di tanto osare non ti senti,
e stanco sei di tentar nuove sorti,
anch’io sono stanchissimo di vivere,
e pronto a presentare la mia gola
a te ed all’antico tuo rancore.
E se ti rifiutassi di tagliarla,
ti mostreresti soltanto uno stolto,
perché il mio odio t’ha sempre inseguito,
ha fatto correre botti di sangue
dalla tua terra, ed io non potrei vivere
se non che a tuo completo disonore,
salvo che non vivessi per servirti.
AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira)
Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola
di queste tue m’ha strappato dal cuore
una radice dell’antico odio!
Se Giove stesso su da quella nuvola
mi rivelasse divini misteri,
e mi dicesse: “Questa è verità!”
a lui non crederei più che ora a te,
nobilissimo Marcio! Ch’io recinga
in un abbraccio codesto tuo corpo
contro il quale la mia forcuta lancia
si spezzò cento volte, e le sue schegge
sfregiarono la faccia della luna!
E adesso invece stringo fra le braccia
la stessa incudine della mia spada,
e caldamente quanto nobilmente
gareggio col tuo ardore,
come prima, con ambiziosa forza,
col tuo valore. Sappi solo questo:
ho amato molto colei che ho sposato;
mai uomo sospirò più lealmente.
Ma ora, nel vederti avanti a me,
nobilissimo uomo, con più gioia
mi sobbalza rapito il cuore in petto
di quando vidi per la prima volta
la mia sposa varcare la mia soglia.
Ebbene, dico a te, come al dio Marte,
che abbiamo già un esercito allestito,
pronto all’azione, ed ancora una volta
m’ero proposto di falciarti via
con la mia spada lo scudo dal braccio,
o di perdere il mio;
dodici volte, l’una dopo l’altra,
tu m’hai piegato, e da allora ogni notte
non sogno che di scontri tra noi due:
ci vedo tutti e due avvinti a terra,
e lì, dopo esserci slacciati gli elmi,
afferrarci l’un l’altro per la gola...
per poi svegliarmi tutto tramortito,
e perché?, per un nulla, solo un sogno.
Degno Marcio, se pur altra querela
non avessimo che la tua cacciata
con Roma, chiameremmo tutti gli uomini
alle armi, dai dodici ai settanta,
e, rovesciando rivoli di guerra
nelle viscere dell’ingrata Roma,
strariperemmo su tutto il suo corpo
con la violenza d’un torrente in piena.
Ma entra, vieni a stringere la mano
ai senatori amici qui venuti
a salutarmi, poi che mi preparo
ad attaccare i vostri territori,
se non proprio la stessa Roma.
CORIOLANO - O dèi,
questa è una vostra benedizione!
AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico,
prender la guida della tua vendetta,
prenditi la metà delle mie forze
e decidi il da fare, a tuo talento
come ti detta meglio l’esperienza;
ché tu conosci più di chiunque altro
del tuo paese forza e debolezza,
se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto
alle porte di Roma, o se investirli
con violenza nella periferia,
per spaventarli prima di distruggerli.
Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa
ti presenti a coloro cui compete
di secondare i tuoi desiderata.
Sii dunque mille volte benvenuto,
più amico oggi che nemico ieri
(e lo sei stato, Marcio, e che nemico!).
Qua la mano. Sii molto benvenuto.
(Escono)
Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169)
PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi!
SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato,
ti giuro, di cacciarlo a bastonate...
Però dentro di me lo sentivo
che il suo abito non diceva il vero...
PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro
con la presa del pollice e del medio,
come se avesse avviato una trottola.
SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso
che c’era in lui qualcosa; una tal faccia
che mi pareva... non so come dire.
PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse...
Eh, m’impicchino se non ho capito
che quello lì ci aveva qualche cosa
in più di quanto potessi pensare.
SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare.
Senz’altro è l’uomo più straordinario
che ho visto al mondo.
PRIMO SERVO - Penso anch’io così.
Però, come soldato, c’è qualcuno
di lui più grande, e tu lo sai chi è.
SECONDO SERVO - Chi, il padrone?
PRIMO SERVO - Non c’è discussione.
SECONDO SERVO - Ne vale sei.
PRIMO SERVO - No, non esageriamo.
Però lo reputo miglior soldato.
SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla:
nella difesa d’una roccaforte
il nostro generale è ineguagliabile.
PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco.
Entra il TERZO SERVO
TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi,
e che notizie, figli di puttana!
I DUE - Quali, quali, su, spùtale!
TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra,
non vorrei essere proprio un romano:
sarebbe come una condanna a morte.
I DUE - Perché, perché?
TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio
che le ha suonate non so quante volte
al nostro generale, è qui con noi.
PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto?
TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via,
però gli ha dato del filo da torcere.
SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi,
per lui è stato sempre un osso duro.
L’ho udito spesso dirlo da lui stesso.
PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui,
a dire il vero: davanti a Corioli
l’ha tagliuzzato come una braciola.
SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale
se lo sarebbe pur cotto e mangiato.
PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie?
TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti
che pare il figlio e l’erede di Marte:
l’hanno fatto sedere a capotavola;
e i senatori, per fargli domande,
s’alzano in piedi e si scoprono il capo.
Il nostro generale, poi, lo tratta
come fosse la sua cara morosa:
lo sfiora con la mano come un santo,
e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi.
Ma il vero succo sapete qual è?
Che il nostro generale è dimezzato
rispetto a ieri, perché l’altro mezzo
se l’è preso quell’altro, col consenso
e le preghiere di tutta la tavola.
Andrà, egli dice, a tirare le orecchie
a chi sta a guardia delle porte di Roma,
che falcerà ogni cosa avanti a sé,
per far pulito e sgombro il suo passaggio.
SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo,
quant’altri al mondo.
TERZO SERVO - Farlo, lo farà;
perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici,
ma anche tanti amici; i quali amici
non hanno avuto, diciamo, il coraggio,
di mostrarsi, diciamo, amici suoi
mentre lui è in discapito(170)...
PRIMO SERVO - “Discapito”?
E che cos’è?
TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno
con la cresta rialzata e bene in sangue
salteran fuori dalle loro tane
come conigli dopo l’acquazzone
e tutti insieme a fargli grande festa.
PRIMO SERVO - Ma quando ciò?
TERZO SERVO - Domani, oggi, subito.
Potresti sentir battere il tamburo
addirittura questo pomeriggio,
come se fosse l’ultima portata
del lor banchetto, da tradurre in atto
prima ch’essi s’asciughino la bocca.
SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi
un po’ di movimento. Questa pace
serve solo ad arrugginire il ferro,
ad accrescere il numero dei sarti
e partorire autori di ballate.
PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra!
È meglio cento volte della pace,
come il giorno è migliore della notte;
la guerra è cosa viva, movimento,
è vispa, ha voce, è piena di sorprese.
La pace è apoplessia, è letargia:
spenta, sorda, insensibile, assonnata,
e fa mettere al mondo più bastardi
che non uccida uomini la guerra.
SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire,
per un verso, una grande scopatrice,
così come la pace
una grande fattrice di cornuti.
PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro.
TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace,
hanno meno bisogno l’un dell’altro.
Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio(171)!
E spero che vedremo qui Romani
a pochi soldi l’uno, come i Volsci.
Si alzano da tavola! Si alzano!
PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!
(Escono entrando nella sala da pranzo)
SCENA VI - Roma, una piazza
Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO
SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare,
né c’è luogo a temerne: le sue armi
sono spuntate(172)... Il popolo sta quieto
e in pace, la selvaggia agitazione
è finita. Che tutto ora vada bene
a Roma, grazie a noi,
fa arrossire di rabbia i suoi amici,
che avrebbero di certo preferito,
a costo di soffrirne loro stessi,
vedere moltitudini in rivolta
per le strade di Roma anziché udire
cantare i nostri nelle lor botteghe,
serenamente intenti ai lor mestieri.
BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto.
Entra MENENIO
Non è Menenio, questo?
SICINIO - È lui, è lui,
s’è fatto gentilissimo con noi,
da qualche tempo in qua.
1 comment