Tutte le mie cose
son sottomesse ad altri. La vendetta
è tutto quanto mi resta di mio;
il mio perdono è nel cuore dei Volsci.
Che un’amicizia sia stata fra noi,
sia l’ingrata oblivione suo veleno
piuttosto che venirci la pietà
a ricordar quant’essa fosse grande.
Perciò vattene. A queste vostre suppliche
i miei orecchi son più resistenti
che le porte di Roma alle mie armi.
Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto,
prendi questo con te:
(Gli consegna una lettera)
per te l’ho scritto,
e te l’avrei mandato. Altro da te,
Menenio, non starò ad ascoltare.
(Ad Aufidio)
Quest’uomo a Roma m’era molto caro
fra tutti: eppure tu lo vedi, Aufidio.
AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante.
(Escono Coriolano e Aufidio)
1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è Menenio?
2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere.
La via di casa la conosci. Va’.
1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso
per aver bloccato Tua Eccellenza?
2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire,
secondo te?
MENENIO - Non me ne importa più
né del tuo generale, né del mondo!
Quanto ad arnesi della vostra specie
faccio fatica soltanto a pensare
che siete al mondo, tanto vi considero!
Chi è deciso a morir di propria mano
non teme di morir per mano altrui.
Faccia pure quanto di peggio ha in mente,
il vostro generale; quanto a voi,
restate pure a lungo quel che siete,
e vi cresca, cogli anni, la miseria!
Dico a voi quel ch’è stato detto a me.
(Esce)
1a SENTINELLA - Un brav’uomo, però, non c’è che dire.
2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il nostro generale!
Una roccia, una quercia che non crolla
per quanti venti gli soffino contro.
(Escono)
SCENA III - La tenda di Coriolano
Entrano CORIOLANO, AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono
CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito
proprio davanti alle mura di Roma.
Tu, mio collega in questa spedizione,
farai sapere ai senatori volsci
con quanta lealtà verso di loro
io l’ho portata avanti.
AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini
e sei rimasto pienamente sordo
alle suppliche dell’intera Roma;
non hai ammesso a privato colloquio
nessuno, no, nemmeno quegli amici
ch’eran sicuri di poterlo fare.
CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo
che ho rinviato con il cuore a pezzi
a Roma, mi teneva ancor più caro
che se fosse mio padre, ed io per lui
ero un dio. Mandarlo ora da me
è stata l’ultima loro risorsa;
ed io, in nome dell’antico affetto,
pur mostrandomi duro anche con lui,
ho loro offerto una seconda volta
per suo mezzo le prime condizioni,
le stesse ch’essi avevan rifiutato
e che ora non posson più accettare;
e ciò solo per un riguardo a lui
che pensava poter fare di più.
Ho ceduto ben poco.
Non presterò più orecchio, d’ora in poi,
a suppliche o altre ambascerie,
che vengan dallo Stato o dagli amici...
(Grida dall’esterno)
Che grida sono queste?
Non dovrò mica vedermi tentato
a ritrattare una promessa fatta
appena adesso?... No, non lo farò(188).
Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito
(Tra sé)
Prima, davanti a tutti, la mia sposa;
poi l’onorato grembo da cui forma
prese questo mio tronco, ed in mano a lei
il nipotino del suo stesso sangue...
Ma via da me la piena degli affetti!
Spezzatevi legami di natura
e diritti del sangue! La caparbia
sia virtù. Che valore ha quell’inchino?
Che valgono per me
gli sguardi di quegli occhi di colomba
che spergiurar farebbero gli dèi?...
Ma oh!, m’intenerisco,
non son di terra più forte degli altri!
Mia madre mi s’inchina...
È come se l’Olimpo si curvasse
ad implorare una tana di talpa;
e il mio ragazzo ha un’aria così supplice
ha un’espressione così supplichevole
che par sia la Natura che mi gridi
a tutta voce: “Non dire di no!”.
Ma passino coi loro aratri i Volsci
sopra il suolo che vide eretta Roma,
e rompano col vomere l’Italia(189)!
Non sarò così insulso
da cedere alla forza dell’istinto,
ma resterò deciso ed incrollabile
come uomo padrone di se stesso
ignorando qualsiasi parentela.
VIRGINIA - Mio signore e marito!...
CORIOLANO - Questi occhi non son più i miei di Roma(190).
VIRGINIA - È la grande afflizione
che ci fa sì mutate agli occhi tuoi.
CORIOLANO - (A parte)
Ecco che adesso, da cattivo attore,
dimentico la parte, m’impappino
fino a un fiasco completo!(191)...
(Alzandosi e andando verso la moglie)
Tu, della carne mia la miglior parte,
perdona la spietata mia durezza,
ma non chiedermi in cambio
di perdonar “questi nostri Romani”.
(Virginia lo abbraccia e lo bacia)
Oh, mia diletta, questo lungo bacio,
lungo come l’esilio, un bacio dolce
come la mia vendetta!
Per la gelosa regina del cielo(192),
quel tuo bacio d’addio io l’ho portato
sempre con me e vergine il mio labbro
da quell’istante l’ha serbato... O dèi,
io sto lasciando senza il mio saluto
la più nobile madre della terra!
(S’inginocchia ai piedi di Volumnia)
Già, mio ginocchio, affòndati per terra,
lasciaci il calco d’una devozione,
la più grande che figlio abbia sentito.
VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto!
(Coriolano si rialza)
Son io che m’inginocchio avanti a te
su questo duro cuscino di pietra,
mostrando in un tal gesto per se stesso
irriguardoso di civil decoro,
come finora mal sia stato inteso
il rispetto fra figlio e genitore.
(S’inginocchia)
CORIOLANO - Che significa questo?
Tu inginocchiata qui davanti a me?
Davanti a questo figlio
tante volte da te rimproverato(193)?
Oh, allora volino a punger le stelle
anche le ghiaie dell’arida spiaggia!
Allora scaglino i venti in rivolta
gli alteri cedri contro il sole ardente,
spazzando via dal mondo l’impossibile,
sì che diventi all’uomo facil opra
fare che ciò che non può esser sia.
VOLUMNIA - Tu sei il mio guerriero e a farti tale
io t’aiutai. Conosci questa donna?
(Indica Valeria)
CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola,
luna di Roma, casta come il ghiaccio
che da neve purissima s’aggruma
col gelo, e pende sul tempio di Diana(194)...
Cara Valeria!...
VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio)
Questo è la tua copia,
un acerbo compendio di te stesso,
che quando il tempo l’avrà maturato
potrà essere tutto il tuo ritratto.
CORIOLANO - (Carezzando il viso del piccolo Marcio)
Possa il dio dei soldati,
col consenso di Giove ottimo-massimo,
informarti di nobiltà la mente
sì da renderti immune al disonore
e farti emergere nelle battaglie
come un gran promontorio in mezzo al mare,
che regge l’impeto delle burrasche
e salva tutti quelli che lo vedono!
VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio)
Giù, in ginocchio!
CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!
(Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su)
VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195)
ed io, tua madre, siamo qui tuoi supplici.
CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla!
O, se qualcosa devi domandarmi,
prima di tutto tieni in mente questo:
le cose che giurai di non concedere
non siano mai da te considerate
come rifiuti, se non le concedo.
Non chiedermi di rimandare a casa
i miei soldati, o di capitolare
alla plebe di Roma un’altra volta.
Non dirmi snaturato se ricuso
non smorzare con più freddi argomenti
la mia rabbiosa sete di vendetta.
VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai detto:
non sei disposto a concedere nulla...
e noi qui non abbiamo che da chiedere
quello che tu hai detto di negarci.
E tuttavia te lo vogliamo chiedere,
sì che, se ci fai vana la richiesta
se ne possa dar colpa
solo alla tua protervia. Perciò ascolta.
CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite;
perché in privato qui nulla da Roma
s’ha da sentire.
(Si siede)
Che cos’hai da chiedere?
VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio,
senza profferir verbo, il nostro aspetto
e queste nostre vesti ti direbbero
che genere di vita abbiam vissuto
da quando sei partito per l’esilio.
Considera che donne sventurate
noi siamo, come nessun’altra al mondo,
nel venir qui da te, se il sol vederti,
che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi
e far danzare di conforto i cuori,
li costringe al contrario a lacrimare
e tremar di paura e di dolore,
e far che madre, sposa e figlioletto
vedano il loro figlio, sposo e padre
che strappa i visceri alla propria terra.
E l’esser tu di questa nostra terra
divenuto nemico è più funesto
per noi, povere donne, che per gli altri.
Ché almeno agli altri è concesso il conforto
di pregare gli dèi,
a noi per causa tua proibito.
Come possiamo, ahimè, noi le tue donne,
pregare il cielo per la nostra patria
(come sarebbe pur nostro dovere)
e nel contempo per la tua vittoria
(come sarebbe pur nostro dovere)?
Ahimè, tra dover perdere la patria,
nostra cara nutrice, o perder te,
che nella patria sei nostro conforto,
andiamo incontro a una sciagura certa,
qualunque sia la parte, delle due,
che possiamo augurarci vittoriosa:
ché o dovrem vederti tratto in ceppi
come un nemico vinto
attraversare le strade di Roma,
oppur calcare da trionfatore
le rovine di questa tua città
con la palma d’aver sparso da eroe
il sangue di tua moglie e dei tuoi figli(196).
Quanto a me, figlio mio,
non ho certo intenzione d’aspettare
qual esito la sorte avrà voluto
serbare a questa guerra.
Se non potrò convincerti a far grazia
con nobiltà di cuore alle due parti
piuttosto che cercare la rovina
d’una sola di esse,
non potrai - credimi, tu non potrai! -
muovere ad assaltare il tuo paese,
figlio, senza aver prima calpestato
il ventre di tua madre
che t’ha portato al mondo.
VIRGINIA - E quello mio
che ha partorito a te questo ragazzo
per far vivere il nome tuo nel tempo!
IL PICCOLO MARCIO - A me, però, non mi calpesterai!
Io scapperò finché non sarò grande,
ma poi voglio combattere!
CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine
bisogna non vedere innanzi a sé
facce di donne o di fanciulli... Basta,
ho già troppo ascoltato.
(Si alza dal seggio e fa per andarsene)
VOLUMNIA - No, no, Marcio,
non lasciarci così! Se il nostro chiedere
mirasse solo a salvare i Romani
e a distruggere i Volsci che tu servi,
ci potresti accusar d’esser venute
come avvelenatrici del tuo onore.
No, ti chiediamo di riconciliarli,
sì che, da un lato i Volsci possan dire:
“Ecco mostrata la nostra clemenza”,
e i Romani: “L’abbiamo ricevuta”;
e ciascuno ti acclami, da ogni parte,
ed esclami: “Che tu sia benedetto,
per aver combinato questa pace!”.
Tu sai, nobile figlio, come incerte
siano sempre le sorti della guerra;
ma questo è certo: se conquisti Roma
il beneficio che potrai raccoglierne
sarà un nome che, appena menzionato,
sarà inseguito da maledizioni
come cervo da una canea latrante(197),
e così d’esso scriverà la storia:
“L’uomo fu certo di gran nobiltà,
della quale però l’ultima impresa
ha spazzato fin l’ultimo vestigio,
ha distrutto la patria, ed il suo nome
resta esecrato per le età future”.
Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre amato
i generosi slanci dell’onore,
tu ch’hai sempre aspirato
ad imitar gli dèi nella clemenza,
a lacerar col tuono l’ampio spazio,
come puoi caricare la tua collera
con un fulmine buono appena appena
a buttar giù un querciolo... Perché taci?
Credi sia degno d’un animo nobile
non saper cancellar dalla memoria
le offese ricevute?
(A Virginia)
Parla, figlia,
parla anche tu, perché delle tue lacrime
lui non si cura.
(Al piccolo Marcio)
Parla anche tu, piccolo.
Forse la tenera tua fanciullezza
più che i nostri argomenti può riuscire
a dargli un briciolo di commozione.
Non c’è uomo che debba più di lui
a sua madre, e mi lascia qui a cianciare
come una alla gogna...
(A Coriolano)
Per tua madre
non hai avuto mai in vita tua
un tratto di filiale gentilezza;
per lei che, invece, da povera chioccia,
incurante d’aver altra covata,
t’ha sempre accompagnato chiocciolando
alla guerra, e t’ha ricondotto a casa
felicemente e carico d’onori.
Di’ che la mia richiesta non è giusta
e respingimi pure con disprezzo;
ma se tale non è, non sei onesto,
e gli dèi ti faranno ripagare
questo tuo rifiutare l’obbedienza
che spetta di diritto ad una madre...
(Coriolano guarda da un’altra parte)
Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù!
(S’inginocchia, e gli altri la imitano)
Ci veda inginocchiati, e si vergogni!
Al soprannome suo di Coriolano
meglio s’addice la boria proterva
che la pietà per le nostre preghiere.
Giù, sia finita, per l’ultima volta!
Poi torneremo a Roma,
e moriremo coi nostri vicini.
No, no, devi guardarci! Questo bimbo,
che non sa profferir ciò che vorrebbe
ma s’inginocchia e ti tende le mani
con noi, sostiene la nostra preghiera
con più forza di quanto tu ne adoperi
nel respingerla. Via, andiamo via!
(Si alzano)
Quest’uomo ha avuto per madre una Volsca,
sua moglie sta a Corioli,
e suo figlio somiglia a lui per caso.
(A Coriolano)
Parla, per dirci almeno “Andate via”!
Io, da qui innanzi resterò in silenzio
finché la nostra Roma non sia in fiamme;
solo allora dirò qualche parola.
CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio)
Ah, madre, madre mia che cosa hai fatto!...
Guarda, s’aprono i cieli e di lassù
irridono gli dèi a questa scena
innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto!
Una felice vittoria per Roma;
ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! -
hai prevalso su lui, ma esponendolo
a un pericolo estremo,
se non proprio alla morte. E così sia!
(Ad Aufidio)
Aufidio, io non potrò più condurre
questa guerra in piena lealtà.
Negozierò perciò una congrua pace.
Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio,
avresti dato tu ad una madre
minore ascolto? O concesso di meno?
AUFIDIO - Sono commosso anch’io.
CORIOLANO - L’avrei giurato!
Ché non è poco, Aufidio, che i miei occhi
trasudino pietà. Ma dimmi tu,
buon collega, che pace vuoi concludere.
Per parte mia, non resterò a Roma;
torno con te a Corioli
e ti prego di darmi il tuo sostegno
in questa contingenza. O madre! O moglie!
AUFIDIO - (A parte)
Godo a veder che ti sei messo dentro
questo conflitto tra pietà ed onore;
ed è proprio su questo
che farò rifiorir la mia fortuna.
CORIOLANO - (Alle donne)
Subito, sì. Beviamo prima insieme.
Ma voi dovete riportare a Roma
miglior testimonianza della cosa
che non sian le parole: un documento
dalle due parti rato e sigillato.
Venite, dunque, entrate insieme a noi.
Donne, voi meritate a Roma un tempio:(198)
tutte le spade che sono in Italia
e i suoi eserciti confederati
non avrebbero fatto questa pace.
(Escono)
SCENA IV - Roma, una piazza
Entrano MENENIO e SICINIO
MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra
lassù sul Campidoglio?
SICINIO - Ebbene, allora?
MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo
riesci a smuoverlo, qualche speranza
vuol dir che c’è che le donne di Roma,
soprattutto sua madre, lo convincano.
Ma io ti dico che non c’è speranza.
Le nostre gole sono condannate,
si tratta solo d’aspettare il boia.
SICINIO - Possibile che in così poco tempo
possa cambiare l’animo di un uomo?
MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre;
eppure la farfalla è stata un bruco.
Questo Marcio, da uomo ch’era prima
s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali.
Non è più cosa che striscia per terra.
SICINIO - A sua madre era molto affezionato.
MENENIO - Ah, per questo anche a me;
ma di sua madre adesso si ricorda
non più che della sua uno stallone
partorito da lei ott’anni fa.
Porta sul viso i segni di un’asprezza
da far inacidir l’uva matura.
Quando cammina par né più e né meno
che stia muovendosi una catapulta:
la terra si raggrinza al suo passare.
Ha uno sguardo che fora le corazze,
parla rintocchi di campana a morto,
e borbotta come una sparatoria(199).
A vederlo seduto sul suo scanno
pare la statua d’Alessandro Magno.
Se dà un ordine, questo è già eseguito
prima ch’abbia finito d’impartirlo.
Gli manca solo, per essere un dio,
l’eternità e un cielo in cui regnare.
SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto.
MENENIO - Io lo dipingo per quello che è.
Vedrai quanta pietà saprà ottenere
da lui sua madre. Ce n’è meno in lui
pietà, che latte in una tigre maschio.
Se ne avvedrà questa povera Roma.
SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia!
MENENIO - No,
in questo caso gli dèi non ne avranno!
Non avemmo per loro alcun rispetto
quando l’abbiam cacciato e messo al bando;
ora che torna a fracassarci il collo,
non possiamo dagli dèi rispetto.
Entra un MESSO
MESSO - (A Sicinio)
Se vuoi salva la vita, corri a casa,
i plebei hanno preso il tuo collega
e lo trascinano di su e di giù,
giurando in coro che se le matrone
non dovessero riportare a casa
qualcosa che dia loro alcun conforto,
lo linceranno, lo faranno a pezzi.
Entra un SECONDO MESSO
SICINIO - Notizie?
SECONDO MESSO - Buone! Buone!
Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci
hanno sloggiato e Marcio è andato via.
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