Daniele Cortis

Le porte

7

Antonio Fogazzaro

Daniele Cortis

 

A cura di Enzo Siciliano

 

 

 

 

 

I edizione: maggio 1995

I edizione per Microsoft Reader: dicembre 2000

© 1995, 2000 Fazi editore srl

Via Isonzo 42/c, Roma

Tutti i diritti riservati

Progetto grafico: Fabio Rizzo, Beatrice Rosso

eBook mastering: Vincenzo Ostuni

 

ISBN: 88-8112-238-3

Introduzione

 

 

 

Se la borghesia padana, la veneta, la lombarda in specie, hanno avuto un narratore nello scorso secolo, questi è Antonio Fogazzaro – finanche squisito nella propria determinazione sociale, per temi e pittura d’ambiente.

Fogazzaro era vicentino, apparteneva a una famiglia che aveva fatto il Risorgimento. Suo padre era un uomo politico, un letterato (fra i suoi amici contava Gino Capponi). Antonio ebbe per maestro, possiamo dire, l’abate Zanella. Spiritualità e ideologia sono connotati essenziali alla mente di questo scrittore che approda alla letteratura, dopo incerti studi di legge, a trent’anni compiuti.

L’incertezza, un soffocato sentire, e passioni violente, una dirompente sensualità, segnarono la sua natura – che trovò riposo, e anche tempesta, in un contrasto tanto sintomatico quanto palmare, quello tra anima e corpo.

L’anima significò per lui bisogno di elevazione spirituale, religione, e religione cattolica; corpo significò sesso infiammato che l’elevazione dell’anima doveva spegnere – lo doveva, senza che se ne sappia bene il perché. Ma quel perché si annidava nella convenzione sociale e religiosa, di quella religiosità diffusa e anodina che ha investito a lungo i costumi italiani.

Accade a Fogazzaro di rappresentare donne spesso malmaritate, fedeli al pessimo uomo cui si trovano unite, innamorate di un uomo tutto dirittura morale che le riama solo potendo sfiorare le loro labbra in occasioni strazianti e fuggevoli.

Fogazzaro narra di adulteri sognati e di destini piegati alla sofferenza, con l’idea che il dolore sia necessario procurarselo anche quando sembrerebbe inutile farlo. Il sesso, in Fogazzaro, è un bollore rimosso, che muove e intreccia vicende senza mai si definisca per la forza imperiosa che ha.

 

Case affondate in boschi profumati di resina, con le finestre che guardano lo specchio vitreo di un lago – gente che passa la giornata giocando a tarocchi e consumando a pranzo particolari menu. Vecchi signori ipocondriaci, tanto burberi quanto comici e benefici; parroci tabaccosi e intriganti, vecchie dame aristocratiche i cui gesti si impigliano sbadati al galateo; donne bellissime, vestite da grandi sarti, profumate ancor meglio, il cui animo nasconde complessità inesplorate così come l’ampia falda del cappello piumato che portano e la veletta nascondono un profilo perfetto e un paio di liquidi occhi verdi. I personaggi di Fogazzaro hanno una presenza corporale evidentissima, spesso giocata con fragranza macchiettistica. Più complicato il disegno dei protagonisti – complicato per una decisione tutta intellettuale, indirizzata a verificare il contrasto di cui ho detto sopra, posto a indizio della vita intesa nella sua completa interezza.

Come ogni narratore incollato alla società che lo esprime, Fogazzaro è un narratore ideologico, o un narratore di idee. Le sue idee tendevano a sposare il cattolicesimo al progresso della scienza, anche al darwinismo che si era diffuso nell’Europa al declino del secolo scorso – a sposare anche il Vangelo allo spiritismo, all’occultismo, esasperando la nervosa sensibilità di quei cattolici che desideravano tingere la fede ereditata dai padri di una spregiudicatezza del tutto moderna, tanto da sentirsi liberi dall’atavica soggezione alla linearità del catechismo.

Fogazzaro era tentato da quella spregiudicatezza – rende alcuni protagonisti dei suoi romanzi assai più tentati da essa di quanto non fosse lui; ma sapeva che, così facendo, andava incontro a un bisogno irrinunciabile dei propri lettori, quello di ritrovarsi oltre la soglia della vecchia Italia che la conquistata Unità si era lasciata alle spalle.

L’Italia degli anni immediatamente successivi all’Unità è un paese ricco di energie, di aperture all’Europa. La tradizionale confessionalità dei vecchi regimi locali sembrava tramontata per sempre: circoli di lettura e clubs si aprivano ovunque. Si arrivava persino a parlare di una eventuale legge sul divorzio. La cultura animava un paese che era stato sonnolento, alcune élites a parte. Il parlamento appariva come la casa comune di tutti, e il sovrano un «galantuomo» degno d’essere considerato senza riserve il padre della patria.

In questo fervore correva una ferita che tutti speravano di poter rimarginare in un modo o nell’altro: la scissura con il Vaticano. La classe dirigente non negava il principio cavouriano della «libera chiesa in libero stato», ma non tutti i cattolici erano liberali e non tutti i liberali lo erano al punto di non essere mangiapreti. Alcuni speravano che i cattolici potessero fare politica proprio in quanto cattolici, nonostante l’impedimento del papa: ma erano speranze limitate. La modernità del paese consisteva nell’aver conquistato, quasi per obbligo, l’indipendenza politica dai dettati del vescovo di Roma.

Fogazzaro sperò in una «democrazia cristiana» – è sua l’espressione che doveva avere poi tanta fortuna: sperò, cioè, in un ingresso dei cattolici in politica che fosse ispirato alla parola di Cristo. Lo scrittore prevedeva un partito interclassista, motivato da principi di solidarietà, volto a potenziare l’indirizzo liberale di quei cattolici che nel Risorgimento avevano inteso affrancare la propria fede dal potere temporale romano.

Con tutto questo nella mente scrisse il suo secondo romanzo, Daniele Cortis, fra il 1881 e il 1885.