Il primo decennio dell’Unità si era chiuso vedendo diminuire il fervore di cui ho detto non senza, però, che le città italiane, da Roma a Torino, da Firenze a Napoli, a Milano, a Palermo, si fossero ammodernate – e il colore del paese, il colore della povertà e dell’arcaica vitalità che a quella si univa, si era anch’esso mutato.

Il Daniele Cortis di Fogazzaro è un uomo che, eletto in parlamento, animato dal proprio ideale cristiano, vuol farsi portavoce della propria idealità – che nell’Italia di quegli anni era condannata irrimediabilmente alla marginalità e alla minoranza. Avverrà che i suoi elettori lo denunceranno per aver tradito il mandato ricevuto, ed egli, sul punto di chiarire in modo manifesto ciò che gli sta a cuore con un discorso alla Camera, si trova impedito a farlo per un malore improvviso.

Ma è la politica il vero tema del Cortis?

 

Nei romanzi di Fogazzaro la chiarezza sta sempre dalla parte della rappresentazione sociale e d’ambiente. V’è in essi, da questo punto di vista, un delicatissimo soffio di affettuosità, qualcosa di pungente, di comico che ricorda l’ariosità settecentesca della tradizione veneta in letteratura e in pittura. Addirittura sembra che il temperamento caustico di un Goldoni o di un Giandomenico Tiepolo rivivano in alcune pagine fogazzariane – e che il narratore riesca a volare alla pari di quei modelli per leggerezza di frase, se deve strappare dal volto di una vecchia contessa i manierismi di una incallita miopia morale, o dalla sottana di un prete il vizio della calunnia. Nella commedia Fogazzaro eccelle, e ci si rammarica che non abbia saputo o voluto fare più intensa virtù espressiva di questa sua qualità.

Nel Cortis, ad esempio, il capitolo d’apertura, dedicato a un ricevimento in villa, palpita per una impressionistica polifonia tutta colori gettati sulla tela alla brava, mentre la pioggia si scarica fuori le vetrate e le tende vengono strapazzate dal vento.

La conversazione è intrisa di allusioni politiche, poi quel tema si dissolve e gli psicologismi, o il dramma, prendono il dominio del quadro.

Non è la politica il tema forte del romanzo, pure se la politica, e la questione cristiana, hanno presa sulla mente del protagonista, – ma, appunto, quando egli alla Camera dovrà dar conto di esse in modo alto, un crollo fisico glielo impedisce.

Il crollo avviene proprio perché il dramma, o gli psicologismi – il legame di Daniele con la cugina Elena, bellissima, misteriosa, più miscredente che non, e malmaritata – prenderanno possesso di lui fino a farlo svenire sul banco di deputato. I sentimenti divorano lo spazio delle idee, o le idee dileguano sotto l’orizzonte dei sentimenti.

Lo svenimento di Daniele è perciò sintomatico se si pensa quanto quella questione ideologica e politica – la presenza organizzata dei cattolici nel parlamento italiano – fosse di fatto e storicamente irrisolvibile.

Racconta Croce nella sua Storia d’Italia che il principe ereditario Umberto, nel 1874, conversando con Gregorovius, aveva rivelato un pensiero dominante e comune col dire: «L’irreconciliabilità della curia è una fortuna per l’Italia, perché permette di maturare al processo che condurrà a una soluzione della discordia».

Dieci anni dopo, ai tempi del Cortis, il processo era ancora lontanissimo dalla maturazione. Fogazzaro pronuncia o lascia prendere figura a un auspicio del tutto personale, ma il protagonista del suo romanzo ci sviene sopra: discute i temi del suo discorso con gli amici, ma, al momento di dare a essi forma pubblica, la forma del suo sentimento privato o della sua personale esistenza prende il sopravvento. Daniele Cortis è un uomo che non sa cogliere le esigenze naturali del suo stesso corpo, e la debolezza lo vince. Fu il limite della borghesia cui apparteneva, e cui apparteneva lo stesso Fogazzaro, il non sapere esprimere una consapevole classe dirigente, tanto robusta di idee quanto sensibile e duttile nell’applicarle.

Elena, la donna che Daniele ama e da cui è amato di un amore impossibile – siamo nella rete del più esibito melodramma – è presente a Montecitorio, dall’alto della tribuna del pubblico, a quello svenimento. Si direbbe che intuisca tutto di questo fallimento: ma proprio la sua intuizione la porta a scegliere tra passione e dovere – non separandosi dal marito bancarottiere che ha sposato non capiamo perché. Questa scelta accenta la vicenda sul versante di una spiritualità concettosa e astratta, rimessa per intero fra i simboli d’onorabilità e spiritualità con i quali il borghese d’altri tempi (ma sono realmente tramontati quei tempi?) cercava di ovviare al materialismo privo di scrupoli che tingeva i suoi comportamenti consueti.

Fogazzaro offriva ai propri lettori casi eccezionali: il suo successo consisteva nell’attenta selezione di questa eccezionalità. Ed era di sicuro eccezionale, di eccezionale incontro con i lettori, questa figura di donna, Elena, che sacrifica se stessa e la purezza d’un amore al dovere di seguire su una improbabile via di redenzione un uomo tanto diverso da lei da provocarle palesi repugnanze fisiche.

È già costei la Elena Muti del Piacere, cui D’Annunzio toglierà ogni pudica incertezza, mettendone allo scoperto la tensione erotica, e i bisogni insopprimibili del corpo?

Nella vita italiana queste donne hanno lasciato segni cospicui, sulle tele di Boldini e in tante altre pagine non del solo d’Annunzio. Donne fatali?

La fatalità di una donna come la Elena del Cortis sta nell’alone negativo, volutamente penitenziale, del suo ben definito e compresso erotismo. C’è in lei un sentore d’umido protetto, tutt’uno con la sua bellezza – un maledettismo intellettuale orgoglioso e persino scontroso. La donna non si fa scrupolo di scandire il proprio desiderio con la lettura di qualche pagina di Chateaubriand: così, il suo romanticismo si ammala di tutto quanto non vuole che il corpo trasudi.

Eppure resta un rivolo di fisico languore ad unire i due amanti mancati – forse solo il disgusto che provano per le ombre negative da cui la loro esistenza è accompagnata. Elena, per il marito; Cortis, per la madre ritrovata. Due figure che, secondo il canone di un qualsiasi romanzo d’appendice, hanno un tristo e greve passato in comune.

Quel passato fa orrore sia a Elena sia a Daniele: in nome di quell’orrore credono di dirsi addio l’una all’altro, e di scegliere la via del dolore.