Il sadismo che connota sempre il romanzesco si impregna qui di sublimante «dolorismo» cristiano. Cos’altro resta?
Fogazzaro intendeva seguire Manzoni. Da Manzoni aveva appreso che nell’amore non può esservi insensatezza o follia. Eppure egli percepisce la violenza dell’eros, i ciechi bisogni che ne scaturiscono. Tutto ciò non si trasforma in una tormentosa percezione etica, come accade a Tommaseo.
Fogazzaro avverte che una legge superiore dovrà regolare l’amore. In Manzoni, quella legge era l’amore stesso, di Lucia per Renzo e di Renzo per Lucia – pure se il narratore della Signora di Monza non si fa alcuna illusione intorno al sesso. Fogazzaro, invece, cerca di farsene: la legge superiore che dovrebbe governare l’amore sono le convenzioni sociali, l’agguato delle maldicenze, magari le lettere anonime.
Elena non si separa da suo marito per mostrarsi superiore a tutto il male che potrebbero dire gli altri di lei, una volta che si decidesse a compiere un passo anticonvenzionale. Questa caduta di senso etico, di quella eticità che non ha niente da spartire con un qualsiasi galateo, avvicina Fogazzaro, però, agli ambigui magnetismi del mondo moderno.
La borghesia che ispira, e che condiziona, il narratore di Daniele Cortis crede ancora in alcuni valori – fossero soltanto quelli legati ai contratti matrimoniali. Ma il tempo in cui ogni valore sarebbe stato sospeso è lì a un passo. I personaggi che Fogazzaro disegna smaniano nella voluttà di cogliere una libertà che intravvedono, ma che è loro ancora negata. L’anarchia erotica che Puccini rappresenterà in Manon Lescaut è vicinissima, come vicinissima è la Elena Muti dannunziana. Una parola come «piacere», così come la usa D’Annunzio, per Fogazzaro è impronunciabile: ma del significato di quella parola egli è gravido.
Elena e Daniele non fanno che sfiorarsi, fiutano il fremere dei loro corpi sotto lo spessore tenue degli abiti: arrossiscono, cioè avvertono il calore dell’epidermide come qualcosa di intollerabile ai loro stessi pensieri.
Dunque, Elena seguirà il marito, addirittura in Giappone; Daniele tornerà alla politica, non sappiamo con che esiti. Da questo si capisce il modo con il quale Fogazzaro ha investito di politica la vicenda immaginata e narrata: la politica non è altro che la proiezione di un obbligo, una mortificazione dei sensi, pari a ciò che il viaggio di Elena rappresenta.
Insomma, Fogazzaro è il narratore di un riflusso della libido: in questo riflusso prendono vita i suoi personaggi. Certo, non prendono vita per valori di cui dicono d’essere portatori: quei valori sono schemi di convenzione, già spenti nell’animo di chi crede perseguirli.
Enzo Siciliano
Daniele Cortis
Capitolo primo
Vento, pioggia e chiacchiere
Le palle cozzarono insieme due volte, forte.
«Tac tac!», fece il conte Perlotti guardandole correre attento, con il gesso nella destra e la stecca nella sinistra.
«Santo diavolo!», esclamò il senatore. «Non c’è taglio. Che stecche avete, contessa Tarquinia? Non si può giuocare.»
«E dàlli!» disse la contessa, sottovoce, fra un gruppo di signore.
«Genero mio benedetto» soggiunse allargando le braccia, «più che scrivere e riscrivere che me ne mandino!»
Si voltò alla Perlotti che sorrideva silenziosamente guardando il tempo dall’uscio a vetri.
«Bello, sai» brontolò. «Sarà la ventesima volta che me lo dice. Vuole che le faccia io le stecche?»
«Che tempo!» disse la signora, prudente. «Fa paura.»
In faccia all’uscio a vetri il grande cipresso morto, avvolto nel glicine sino alla punta, rizzava il suo chiaro verde nel cielo livido; radi goccioloni macchiavano la ghiaia.
«Eh, sì signora, paura.
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