Io dovevo camminare per più di mezz’ora e così mi affrettai verso casa, tanto più che la notte di aprile era fredda e nebbiosa. Ero tutto preso dai miei pensieri e non mi sembrò che fosse passato tanto tempo quando fui davanti al portone di casa.

Lentamente aprii il portone e poi lo richiusi prudentemente dietro di me. Accesi un 23

fiammifero che avrebbe dovuto illuminare l’androne fino alle scale. Ma era l’ultimo che avessi. Si spense subito. Salii brancolando le scale, pensando ancora ai bei momenti della sera appena passata. E fui sopra. Misi la chiave nella toppa, girai, l’aprii lentamente…

Lei stava lì davanti a me. Una candela fioca, quasi del tutto consumata, illuminava la misera stanza, da cui proveniva un effluvio di sudore e di grasso. Stava in piedi accanto al letto con una camicia da notte sporca e aperta e una sottoveste scura, non sembrò per niente sorpresa, solo mi guardava fisso con gli occhi sbarrati.

Evidentemente ero entrato nella sua camera. Ma ero così preso, così profondamente avvinto, che non dissi nemmeno una parola di scusa, ma nemmeno me ne andai. Lo so che ero disgustato, ma rimasi. Vidi che si avvicinò al tavolo, tolse via un piatto con i resti sparsi di una cena improbabile, spostò dalla poltrona il vestito, che indossò – e mi invitò a sedermi. Con voce flebile disse: «Prego, si accomodi».

Anche il suono della sua voce mi sembrava sgradevole. Ma, come seguendo una forza sconosciuta, obbedii. Parlò, non so di che. Nel frattempo si sedette ai bordi del letto. Al buio. Vedevo solamente il pallido ovale del viso e a momenti, quando la consunta candela guizzava per un attimo, i grandi occhi. Quindi mi alzai, volevo andarmene. La maniglia alla porta fece resistenza. Lei venne ad aiutarmi. Lì – proprio vicino a me – scivolò e io dovetti abbracciarla. Si strinse al mio petto e io sentii da vicino il suo respiro ardente. Era sgradevole. Volevo liberarmi. Solo i suoi occhi erano così fissi nei miei, come se quello sguardo tessesse una rete invisibile attorno a me.