Mi salutava e cominciava un discorso. Ogni giorno lo stesso. Prima parlava del tempo e poi mi chiedeva se ero contento del mio appartamento e cose del genere. Il vecchio non la smetteva mai, gli chiedevo sempre dei suoi figli, al che sospirava e, a denti stretti, sibilava: «È una croce! Mi danno solo preoccupazioni, signore mio!». E così finiva il colloquio. Una volta, era di martedì, chiesi, tanto per dire qualcosa, chi abitasse vicino a me. Il tono della risposta corrispondeva a quello in cui era stata posta la domanda, così, incidentale. «Una cucitrice, una poveraccia, uno schifo…», borbottò senza alzare gli occhi dal pavimento. E fu tutto.

Avevo da molto tempo dimenticato questa informazione quando la incontrai nel buio corridoio del palazzo – la cucitrice, come immaginai allora giustamente. Era domenica mattina. Avevo dormito più a lungo del solito e stavo proprio uscendo, mentre lei, con un libro bianco in mano, probabilmente stava tornando dalla chiesa.

Una figura misera: tra le spalle appuntite, coperte da un cappotto verde tutto consumato che arrivava quasi fino a terra, spuntava la testa, su cui si notava dapprima il naso lungo e sottile, e poi le guance incavate. Le labbra sottili, lievemente socchiuse, mostravano denti sporchi, il mento era spinto e sporgente. In quel volto soltanto gli occhi sembravano dire qualcosa. Non che fossero belli, ma erano grossi e neri – anche se privi di splendore. Così neri che i capelli, profondamente scuri, sembravano quasi grigi. So soltanto che quest’essere mi fece un’impressione tutt’altro che gradevole. Credo che non mi avesse nemmeno guardato. Non ebbi tempo di riflettere ulteriormente su quell’incontro insignificante, perché proprio sul portone incontrai un amico, con cui trascorsi l’intero pomeriggio. Poi dimenticai del tutto di avere una vicina, giacché, nonostante fossimo porta a porta, lì accanto c’era silenzio notte e giorno. Sarebbe andato avanti così se una notte per caso – altrimenti non saprei come definirlo – non fosse accaduto l’inatteso, l’impensabile.

In casa della mia fidanzata, negli ultimi giorni del mese d’aprile, ci fu una festa che, a lungo promessa e preparata, riuscì molto bene e durò fino a tarda notte. Proprio quella sera trovai Edwige incantevole. Chiacchierai a lungo con lei nel piccolo salotto verde, ascoltai pieno di gioia come, un po’ ironica, un po’ infantile, disegnava con intima ingenuità il quadro della nostra futura condizione familiare, come dipingeva coi colori più accesi tutte le piccole gioie e i piccoli dolori, e come si rallegrava della nostra felicità, simile a un bambino di fronte all’albero di Natale. Una piacevole sensazione di felicità attraversò il mio cuore come un calore piacevole, e anche Edwige allora ammise di non avermi mai visto così contento. Lo stesso umore, del resto, regnava su tutta la compagnia: i toast arrivavano a ondate. E si arrivò al punto che alle tre del mattino ancora non ci si voleva separare. Di sotto le carrozze arrivavano una dietro l’altra. I pochi pedoni si dispersero ben presto in tutte le direzioni.