La cintola che passava sopra le tasche. E “cintola” voleva dire anche dare a qualcuno un colpo di cintola. Un giorno un tale aveva detto a Cantwell:

“Sarei capace di darti una di quelle cintole in un attimo.»

Cantwell aveva risposto:

“Provaci. Provati a dare una cintola a Cecil Thunder. Mi piacerebbe vederti. Ti rifilerebbe un calcio nel sedere”.

Non era un’espressione come si deve. Sua madre gli aveva detto di non parlare con i ragazzi maleducati del collegio. Cara mamma! Il primo giorno, nell’atrio del castello, salutandolo, si era alzata la veletta sul naso per baciarlo: e aveva il naso rosso, e così gli occhi. Ma lui aveva finto di non accorgersi che stava per piangere. Era bella sua madre, ma non più tanto bella quando piangeva. E suo padre gli aveva dato due monete da cinque scellini come spiccioli. E gli aveva anche detto, suo padre, di scrivergli a casa se avesse avuto bisogno di qualsiasi cosa, e di non tradire mai un compagno, qualunque cosa avesse potuto fare. Poi, alla porta del castello, il rettore aveva stretto la mano al babbo e alla mamma, con la sottana che gli si gonfiava nel vento, e la carrozza era partita con il babbo e la mamma. Dalla carrozza, salutandolo con la mano, gli avevano gridato:

“Arrivederci, Stefano, arrivederci!”.

“Arrivederci, Stefano, arrivederci!”.

Fu colto nel turbinio di una mischia, e, timoroso degli occhi balenanti, degli scarponi infangati, si chinò a guardare tra le gambe. Gli altri lottavano e grugnivano, le gambe si strofinavano le une contro le altre, scalciavano e scalpicciavano. Poi gli scarponi gialli di Jack Lawton si impadronirono del pallone e gli altri scarponi e le altre gambe lo inseguirono. Lui corse loro dietro per un po’, poi si fermò. Era inutile continuare a correre. Di lì a non molto sarebbero tornati a casa per le vacanze. Dopo cena, nell’aula di studio, avrebbe cambiato il numero incollato sotto il banco: da settantasette a settantasei.

Sarebbe stato meglio rimanere nell’aula di studio che lì fuori al freddo. Il cielo era pallido e gelido, ma nel castello splendevano luci. Si domandò da quale finestra Hamilton Rowan avesse buttato il cappello nel fosso di cinta e se ci fossero state aiuole di fiori, allora, sotto le finestre. Un giorno, quando era stato invitato al castello, il maggiordomo gli aveva fatto vedere i segni delle pallottole dei soldati nel legno del portone e gli aveva dato un pezzo della pasta frolla che mangiava la comunità. Era piacevole vedere le luci del castello, dava un senso di tepore. Come qualche descrizione in un libro. Forse l’Abbazia di Leicester era così. E il Manuale di Pronuncia del dottor Cornwell conteneva belle frasi; sembravano versi, ma erano soltanto frasi per imparare la pronuncia.

 

Wolsey morì nell’Abbazia di Leicester

Dove gli abati lo seppellirono.

Il “canker” è una malattia delle piante,

Il “cancer” una malattia degli animali.

 

Sarebbe stato piacevole distendersi sul tappeto del caminetto davanti al fuoco, il capo appoggiato alle mani, e pensare a quelle frasi. Rabbrividì come se avesse sentito sulla pelle acqua gelida e limacciosa. Era stata una perfidia da parte di Wells farlo cadere a spallate nella piscina perché non aveva voluto barattare la piccola tabacchiera con la castagna secca di Wells, vincitrice di quaranta partite. Com’era stata fredda e melmosa, l’acqua! Un tale una volta aveva visto un grosso topo di fogna saltare nella schiuma. La mamma sedeva davanti al caminetto insieme a Dante, in attesa che Brigida servisse il tè. Appoggiava i piedi sul parafuoco e aveva le pantofole con i lustrini così calde, e c’era un odore così caldo e gradevole! Dante sapeva una montagna di cose. Era stata lei a insegnargli dove si trova il canale di Mozambico e qual è il fiume più lungo dell’America e come si chiama la montagna più alta della luna. Padre Arnall la sapeva più lunga di Dante perché era un sacerdote, ma tanto il babbo quanto lo zio Carlo dicevano che Dante era una donna intelligente e una donna che aveva letto parecchio. E quando Dante aveva fatto quel rumore, dopo cena, e poi si era portata la mano alla bocca: bruciore di stomaco.

Una voce gridò lontano nel cortile della ricreazione:

“Tutti dentro!”.

Poi altre voci, dall’ultima e dalla terza linea, gridarono:

“Tutti dentro! Tutti dentro!”.

I giocatori gli si serrarono intorno, accesi in viso e inzaccherati di fango, e lui si incamminò tra loro, ben lieto di rientrare. Rody Kickham teneva il pallone per il laccio infangato. Un allievo lo invitò a un ultimo tiro: ma lui andò oltre senza neppure rispondergli.