Questo servì a renderlo più solitario, pigro e taciturno. Fra lui e le donne ci fu sempre una certa distanza che egli riempiva dei suoi sguardi bassi e subitanei. La sua emozione era tanto maggiore quanto maggiore diventava quella distanza. Il massimo della felicità, egli lo raggiungeva la notte, se al di sopra di un cumulo di tetti, terrazze e campanili neri, quasi in mezzo alle nuvole, si accendeva una finestrina rossa, nella quale passava e ripassava una figura di donna che, per l’ora tarda, si poteva pensare si sarebbe la poco spogliata. (Cosa che mai avveniva, almeno con la finestra aperta e accesa.) Ma bastava una sottana di seta, arrotolata come un serpe sul pavimento, e l’ombra di qualcuno, che probabilmente si muoveva sopra un letto, posto a destra o a sinistra dal punto visibile della stanza, perché la fronte di Giovanni s’imperlasse di sudore.

Queste emozioni precedettero di qualche anno una brutta abitudine, comune a tutti I ragazzi della sua età, ma che, per alcuni mesi, egli portò agli estremi.

Dopo quei mesi, per fortuna, Giovanni ridivenne normale, anche perché alle sensazioni troppo forti preferiva quelle più dolci e prolungate che gli davano, i discorsi sul solito argomento. Per tali discorsi, trovò facilmente a Catania compagni abilissimi che gli divennero cari come certe voci interne senza le quali non sapremmo vivere. Per esempio, l’uhuuu! di Ciccio Muscarà, a commento di una signora carnosa, lo faceva gongolare di gioia; ed egli avrebbe passato male la domenica, se, durante la settimana, non avesse sentito almeno venti volte quel profondo lamento, quel gemito delle viscere.

Prima di conoscere la donna, trascorse lunghe sere nel buio di certe straducole, ove stava acquattato, come uno scarafaggio, insieme a Ciccio Muscarà e a Saretto Scannapieco, col pericolo di venir pestato da un marinaio. Talvolta, un fascio improvviso dì luce, da una porta spalancata con un calcio, illuminava tutti e tre, e una voce cavernosa, invitandoli con un insulto affettuoso, li faceva fuggire sino al centro della città.

Una sera, essendosi Giovanni tutto inzuppato, e riempito d’acqua le scarpe, un donnone lo tirò dentro, e chiuse la porta. Tutto fu rapido, insipido e confuso. La sensazione più forte, egli la provò nel rimettere gli abiti, ancora bagnati e gelidi, sul corpo che bruciava di febbre. Si ammalò la sera stessa, e l’indomani narrò l’accaduto, fra colpi di tosse, al due amici che gli sedevano al capezzale. Forse la distanza fra lui e la donna si sarebbe allungata in modo irrimediabile, e per sempre, se una ragazza di campagna non avesse pensato a rendergli la verità della donna non troppo indegna dell’idea che egli ne aveva.

Intanto era scoppiata la guerra, e Ciccio Muscarà fece la scoperta che le mogli, rimaste sole nei loro letti grandi, “sentivano freddo”. Ce n’era una, uhuuuu! in via Decima… Un’altra in un cortiletto, uhuuuu!… Una terza nell’ultimo piano di un palazzo!… Si trattava di scoprire quali fossero “disposte” fra tante, e indovinare il momento, Questo si poteva capirlo dallo sguardo che ciascuna gettava dallo scialle, alzandosi dall’inginocchiatoio.

Giovanni Percolla e Ciccio Muscarà passarono gran parte della loro giornata nelle chiese di Catania, sotto i grandi piedi delle statue; i loro vestiti odorarono d’incenso; e i preti nell’abbassare lo sguardo dal calice levato verso il soffitto, notandoli sempre al medesimo posto, scuotevano nervosamente le ciglia. Ma, in verità, non ebbero grandi successi. Divennero allora più audaci, e si portarono vicino al confessionale, nonostante che, un pomeriggio, il naso di Ciccio Muscarà fosse andato a finire tra le enormi dita di un confessore, mentre il casotto di legno laccato rintronava della parola “Canaglie!”

Quello che udirono servi poco ai loro discorsi serali sulle sofferenze delle mogli prive dei mariti, e meno ancora alla loro strategia. La graticola riceveva piuttosto parole di sconforto che d’inquietudine carnale. E siccome erano due bravi figliuoli, spesso si trovavano con le lacrime agli occhi. “Signor confessore, quando mangio pane e formaggio la sera, sogno animali con tre piedi, ma quando vado a letto digiuna, vedo sempre mio marito come al tempo in cui aveva sedici anni, che scendeva a testa in giù nella mia finestra dal piano di sopra. Devo andare a letto digiuna?” Questa fu la sola frase che udirono per intero.

Tuttavia fu solo alla fine della guerra che convennero di aver perduto il loro tempo e che la loro età non permetteva più di baloccarsi con le vane speranze. Ma dovette rientrare a Catania il Reggimento Ventesimo, con la bandiera lacera, e il prefetto in testa, perché i due amici si rassegnassero ad abbandonare la dolce abitudine di frequentare le chiese.

Si diedero a visitare alcune piccole abitazioni, al pianterreno o al quarto piano, il cui capo di famiglia dominava le stanzette dai moltissimi ritratti, gettando sguardi orgogliosi perfino sul letto. ma che, nonostante le paure di un suo arrivo improvviso (“Dio ce ne scampi, se lui sapesse una cosa simile!”), non fu visto mai varcare la soglia.

Il taccuino di Giovanni, che intanto aveva lasciato per sempre le scuole, e frequentava il negozio di stoffe dello zio Giuseppe, si riempì della parola “ruff”.

Quasi in ogni pagina, c’era un nome, con accanto le quattro lettere singolari: Boninsegna, via del Macello ruff; Torrisi, via Schettini ruff; Leonardi, via Decima ruff… Di chi erano questi nomi? In generale, di cocchieri e mendicanti che si prestavano ad accompagnare i signorini, o, come si diceva a Catania, i cavallitti e i cavallacci, nelle soffitte in cui una ragazza mal dipinta si nascondeva, con finta timidezza, dietro la madre falsamente spaventata e pentita, e che poi non era la madre ma una vicina.

Il più rinomato di costoro era don Procopio Belgiorno. Piccolo, un solo ciuffo di capelli nel centro del cranio, una pupilla schizzata in alto, quasi al di sopra del sopracciglio, vestito sempre di nero, con giubbetto color tabacco, colletto duro sudicia, fazzoletto uscente a sboffi da una tasca della giacca, sudicio, un fiore sudicio all’occhiello, e tuttavia non repugnante, come le statue annerite dagli anni, don Procopio Belgiorno mormorava in un orecchio: “Un piacere mondiale! Passò il guaio sei giorni fa! Quindici anni!…” Subito il giovanotto tartagliava per l’emozione: “Don Procopio, non facciamo che sia una vecchia come l’altra volta?”

In verità, non era mai accaduto che don Procopio non venisse rotolato dalle scale, in cima alle quali era salito insieme con un gruppo di cavallitti; mai che una delle sue quindicenni non avesse almeno trent’anni. I giovanotti lo sapevano; ma l’eloquenza di don Procopio era potentissima in una città come Catania ove i discorsi sulle donne davano un maggior piacere che le donne stesse.

“Non mi fa la fesseria di lasciar spogliare la ragazza da sola? Per la Madonna della Seggiola! Vossignoria se la deve spogliare con le sue mani!” diceva a bassa voce don Procopio, mentre andavan trottando nel buio di vicoli e cortili. Il solo momento delizioso, per i giovanotti, era quello in cui camminavano con don Procopio verso la casa sconosciuta. Poi, sia l’uno che gli altri sapevano cosa sarebbe accaduto: don Procopio, giunto nell’ultimo pianerottolo, prima che si aprisse la vecchia e screpolata porta, scendeva indietro indietro; e i giovanotti sfoderavano le mani dalle tasche dei pantaloni. Non appena si faceva luce, e la quindicenne rivelava le rughe e i bitorzoli, don Procopio si buttava a capofitto starnazzando come una gallina, ma presso il portone veniva raggiunto e pestato, come si pesta il proprio cappello in un momento di collera.

Eppure le donne più belle, che gli uomini di Catania abbiano veduto, furori quelle di cui don Procopio fece sentire la voce, vedere il collo, i piedini, i denti, durante il tragitto dal centro della città alla scalaccia buia. Si può anche dire che il destino di questi uomini è stato ben duro: di dover bastonare a sangue il poeta dei loro sogni d’amore, l’uomo che leggeva nel loro occhi, e prometteva a bassa voce colei che ciascuno avrebbe voluto, e dava poi quello che la vita suole dare in simili casi. Davanti alla porta screpolata, il suo compito era terminato: tutti lo sentivano. Ma l’addio alle belle immagini, e a colui che le aveva suggerite, avrebbe forse potuto essere un po’ meno brutale.

Anche Giovanni Percolla, Ciccio Muscarà e Saretto Scannapieco caddero nei lacci di questa eloquenza, e non furono, al termine dell’avventura, meno maneschi degli altri; anch’essi udirono, nel buio della sera, per i vicoli in cui i lampioni a gas, venivano spezzati ogni pomeriggio con una sassata, quella voce bassa mormorare: “Uno zucchero, uhuuu!… Ma si corichi piano piano!… Non vi dispiacerà certo che quando,.. mi spiego?… ella accia come una tortora? Ha questo vizio!…” e anch’essi, vedendo che la tortora era un colombo viaggiatore, ruppero al povero vecchio uno dei fignoli che aveva sempre sulle tempie.

Del resto, dietro questi miraggi, non marciarono per il fango, i cumuli di spazzatura, I gatti neri e le galline, soltanto personaggi dappoco.