Il sindaco in persona si fece accompagnare, una sera di domenica, dal turbante brontolio di don Procopio. “Ecco qui, signor sindaco!” disse costui alla fine, spingendo nel vano di una porticina l’illustre personaggio. Questa volta la ragazza, alla quale don Procopio aveva accompagnato il suo cliente, fuggendo poi a gambe levate, non era una vecchia, ma una ragazza vera e propria. Solo che aveva, da sei giorni, una febbre altissima e misteriosa. Il sindaco fu accolto da grida disperate, perché venne scambiato per il medico.
“Signor dottore!” gli gridava la madre, scuotendolo per il bavero del soprabito, “signor dottore, mai sia! Signor dottore, il contra! Il contra! Non lo conservate per i ricchi, il contra, signor dottore!”
In un letto a due piazze, sotto un largo ventaglio d’immagini sacre, il Re, Garibaldi e due enormi sposini di ritorno dalla chiesa, giaceva un piccolo viso ovale schiacciato dalla sofferenza e dal digiuno. “Barbara!” chiamava la madre a quel visino da un soldo, “Barbara, madruccia, guardami, cuoricino! C’è il dottore! Ti darà il contra!… Oh, non sente! Oh, che peste hanno gettato! Il sindaco ci ha venduti come casseruole rotte! Quel cane del sindaco!… Vi prego, signor dottore, uscite questo contra!”
“Ma io non sono dottore!” azzardò il sindaco con un fil di voce.
Ci fu una pausa durante la quale si sentì che da quel piccolo viso si partiva un ronzio leggero e intermittente, come quello del vento entro una chitarra. ‘T chi siete allora?”
“Ma… non so… ho sba…”
“Non sapete? Non sapete, canterano del diavolo? Andate via, beccone maledetto! Via andate!”
Il sindaco se la cavò a mala pena, e non interamente: tre giorni dopo, al funerale della piccola Barbara, uno dei bambini indossava mezzo soprabito del sindaco, e pareva un pipistrello, intanto che un pezzo di quello stesso soprabito, trasformato in giubbetto, si avvoltolava per terra, addosso alla madre che lo aveva infilato la sera avanti.
Questo fu il primo caso di febbre spagnuola a Catania, e il principio di una serie di sciagure.
Una sera il padre di Giovanni Percolla rincasò con una brutta smorfia che gli faceva tenere storta la pipa. “Sudato, sudatissimo!” borbottava. “Sento che starò male!”
“Hai la febbre?” gli domandava la moglie, alzandosi sul piedi per tastargli la fronte. “Certo, una febbre da cavallo!”
Gli ficcarono un lungo termometro in bocca, ma, con grave disappunto del vecchio Percolla, quel termometro segnò trentasei gradi. “Non hai febbre!” fece la moglie, battendo le mani.
“Non l’ho, ma sto male lo stesso! E di questo termometro, ecco cosa faccio!” E ruppe il cannello di vetro in mille pezzi. “Il letto!” si mise poi a gridare. “Il letto riscaldato!”
Subito un ferro da stiro a carbone, nel quale vollero soffiare tutti per farlo divampare, volò tra le lenzuola; e il vecchio Percolla si mise a letto.
“Morirò, sangue d’un cane, morirò!”
Volle che gli portassero nella camera tutte le pipe in cui aveva fumato, il pastrano e il cappello a cencio. In un angolo, a fascio furono collocati i bastoni.
“Quello!” disse, indicando una canna di bambù col manico a testa di cane. “Quello…” “Lo vuoi?” domandò piano la moglie, che cominciava a piangere.
“Con quello battevo il cancello del tuo giardino e tu ti affacciavi.
Ma quando gli portarono la poltrona, in cui soleva passare le lunghe ore della sera, balzò a sedere sul letto. “Eccomi!” gridava. “Eccomi seduto lì! Un gentiluomo, un uomo onesto, un brav’uomo sedeva in quella sedia! Sangue del diavolo, figlio di… cornuto di… quel brav’uomo deve morire!”
Il vecchio non era mai stato una monaca nell’esprimersi; ma quella volta le sue parolacce furono così terribili che la moglie fuggì nel punto più lontano della casa, ficcandosi le dita nelle orecchie, perché, anche laggiù, quando s’apriva un uscio intermedio, arrivava un “Cornuto di…” col seguito.
La notte, il commendatore Percolla fu assalito dalla febbre, e i suo i occhi ingranditi s’attaccarono alla porta come vedendo qualcosa che gli altri non vedevano. Maledetti tempi! Due giorni dopo, anche la moglie si ammalava, gridando, nel delirio: “Badate a mio marito! E’ freddoloso!”
Questa donna, ancora giovane, morì nel salotto, ove s’era spinta, di nascosto a tutti, per recarsi nella camera del marito a vedere se gli avessero steso un’altra coperta sui piedi. La trovarono seduta davanti a uno specchio lungo, in sottana bianca, la faccia curva in avanti e coperta dal capelli. Due giorni dopo, tacendo ormai da sette giorni, anche il marito se ne andava.
Giovanni, da tutti ritenuto freddo e pigro, diede in tali accessi di dolore che, nonostante le paure del contagio, molti vicini vennero a tenergli le gambe e a strappargli le mani dalla bocca. Per due giorni, parlò continuamente; e il ragazzo chiuso non si lasciò dentro nemmeno una parola non detta. Pensava parlando, sicché si poteva udirgli borbottare: “Il berretto alla marinara!… Mio padre lo gettava all’aria!… come me!… Bambino!” aggiungeva con un urlo, lanciandosi contro un signore allibito che si riparava dietro una sedia. “Mio padre è stato bambino come me!” Poi sì calmava. “Il gatto nero!… Zanzare!… Una sola basta! Una sola zanzara!… Bambino!… Lei… Freddo! Guardate che quell’uomo ha freddo… E lei, lei, in una poltrona! Oh, in una poltrona!… Che caldo!… Padre parroco, domani digiuno per mio marito che ha bestemmiato!… Ha più corna lui che un paniere di lumaconi!… Oh, non dire così della gente!… E tu, Rosina, che te ne importa della gente?… Si adoravano! Ahi, ahi!” E sveniva.
Pareva che questo ragazzo dovesse rompersi come una canna. Ma una settimana dopo, egli era tornato chiuso e taciturno; voleva rimaner solo, di notte, nella casa ormai vuota, e s’aggirava fra i divani e i letti, stendendosi ora su questo ora su quello, ora al buio ora con tutti i lampadari accesi, avendo in mano un libro che non leggeva mai e buttava davanti a sé, come un passante svogliato manda lontano con un calcio e poi va a raggiungere, per rimandarla con un nuovo calcio, una scatola vuota. Ma presto, tornarono in casa le tre sorelle, ch’erano vissute sempre coi nonni. Lo zio Giuseppe gli disse: “E ora a te! Lavora!”
Passarono quindi tre anni, che noi non racconteremo, al termine dei quali Giovanni si era restituito totalmente alle sue vecchie abitudini.
2.
Ora egli aveva una grande stanza tutta per sé, nella quale poteva dormire in qualsivoglia positura: o steso sul letto, con la testa fuori del cuscino e del materasso, spenzolata nel vuoto, sicché il gatto, scambiandola per un cenno d’invito, le toccava il naso e il mento con la zampetta; o sprofondato in una poltrona bassa, coi piedi sopra un tavolino; o in terra, sul tappeto, con le gambe sopra due cuscini dipinti di leoni; o infine in una sedia a dondolo, riflettendone lo specchio ora la testa ora la punta dei ginocchi. Qui venivano gli amici, e anch’essi si buttavano, o, come diceva Muscarà, s’abbiavunu e sdavacavunu, sui Pagliericci e le ciambelle di cuoio, riempiendo presto la camera di un tale fumo di sigaretta che, dal balcone socchiuso, i passanti vedevano uscire una sorta di lenzuolo grigio palpitante nell’aria. Fumo, caffè, e liquori. Le sorelle di Giovanni, tenute lontane dalla camera, credevano che i tre amici parlassero di affari… Invece mugolavano sul piacere che dà la donna.
“Io,” diceva Scannapieco, “attraverso un momento brutto! Salgo muri lisci! Non posso guardare nemmeno una caviglia che… uhuuuu! Non ci son donne che mi bastino!”
“E io, sangue d’un cane?”
“Ma perché la donna deve farci quest’impressione? Vedo quei continentali calmi, sereni!… Non ne parlano mai!”
Diventavano autocritici: “E’ che, a Catania, di donne se ne vede una ogni mille anni!” “E’ il sole, anche!”
“Ma che diavolo dici, il sole? A Vienna, due anni fa, durante un inverno, Dio ce ne scampi, che pareva la notte, forse che io? “ Madonna del Carmine! ‘Avete il fuoco nelle vene?’ mi diceva la figlia della padrona di casa.”
Ogni tanto il desiderio di passare la sera in una casa ospitale, ove il caffè fosse servito da alcune signorine, era appagato.
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