Ma nel piccolo viso di Ninetta la Bellezza è diventata così profonda e misericordiosa, che se il topo più mostruoso o il secchio più ignobile venisse a rotolare sul tappeto logoro, ai piedi di lei, sarebbe compreso, compatito e perdonato fino a liquefarsi e sparire. Del resto, è arrivato il momento di andar via, e tutti si sono alzati.

Barbara chiama in un’altra camera Giovanni: “Fratello mio, sentiamo la tua mancanza!… Ma non è per questo che ti ho chiamato. Per quanto vuoi bene alla salute, ascoltami: non è giusto che andiate soli, tu e lei! La gente ha la lingua lunga. La portinaia mi ha detto: “Può essere che la fidanzata sia ancora signorina, se vanno soli per le strade?’ Ora perché dovete prendervi queste male fame?”

“Mio Dio, Barbara!” fece Giovanni, e uscì con violenza dalla camera. “Si va, caro?” disse Ninetta, infilando i guanti.

“Subito!”

Dalla strada, voltandosi verso il balcone, i due fidanzati videro le sorelle alla ringhiera, l’una dietro l’altra, strette, come cerbiatti su una trave che stia per rovinare entro un fiume in piena. Un lunghissimo lenzuolo, pendente dal piano di sopra, si agitava sulle tre donne, lambendone quasi le teste.

10.

La stanza di soggiorno di casa Marconella fu idealmente divisa dai fidanzati in tre punti: “A”, “B”, “C”. Nel primo, c’era un sediolone; nel secondo, alcune sedie di vimini e un tavolinetto; nel terzo, quattro poltrone, un falso camino, e un tavolo per fumatori.

Nel punto “A”, Giovanni passò lunghe ore deliziose, guardando la luce del giorno, che pioveva dalla vicina finestra, mutare sui capelli di Ninetta. Nel punto “B”, la sua vita non fu meno felice: ma talvolta gli toccò di sopportare i discorsi del marchese, che riempiva del “proprio io”, come egli stesso soleva dire, ma di un io gigantesco, flaccido, di burro, la sedia più grande. In ottobre, da Siena giunse la suocera, una graziosa donna, che andava avanti a colpi secchi e forti della sua testina bionda, grigia e sorridente. La suocera prese posto nel punto “C”, e, siccome le piaceva molto trattare le cose come se fossero diverse da quelle che erano, metteva le mani nel falso camino fingendo di riscaldarsi e chiamava sulle sue ginocchia, come si chiama un cane, il piccolo cuscino collocato nella sedia accanto. “Che felicità, sposare un vero siciliano!” diceva alla figlia. “A me, ne è toccato uno falso! Non ricordo un solo momento di gelosia, da parte sua!”

“Mamma, che vai dicendo?” gridava stizzita Ninetta. “Papà non può essere siciliano, se è nato a Perugia, e suo padre è nato a Venezia!”

“Ma a me disse, in verità, che aveva sangue siciliano nelle vene… almeno da parte della madre… Poi, non ricordo più: son cose di tanti anni fa! Ma, Dio mio, avrebbe potuto essere un po’ geloso! Io non sono buona a fare ingelosire un uomo!… Però a lui, chi glielo impediva di essere un po’ geloso?”

Ninetta, più che mai infastidita da tali discorsi, temendo che il fidanzato si mettesse su una cattiva strada, gli stringeva con le unghie la mano, quella grossa e brava mano, in cui erano scritte le prime cinque libertà. “Uhrrrr!” faceva il marchese, svegliandosi, e issando fuori del confuso mucchio del proprio corpo la testa orribile e buona, coi sopraccigli detestabili e mansueti.

Una sera ch’egli dormiva con la testa quasi mescolata al petto, mentre il respiro affannoso gonfiava, una dopo l’altra, quattro o cinque sfere di carne confusamente coperte di un vestito d’uomo, la moglie, guardando con tenerezza, sospirò: “Il marito!”

Ninetta si volse, aspettando con trepidazione un discorso poco opportuno.

“Il marito!” continuò quella graziosa vecchia. “Cos’è? Io mi domando, dopo trent’anni: cos’è? I figli, il padre e la madre sono lo stesso tuo sangue! Ma il marito? Com’è strano, certe volte, pensare cos’è il marito! E tuttavia gli si vuole tanto bene!”

E ch’ella gli volesse bene, appariva chiaramente dallo sguardo affettuoso, furbo e gentile che si dirigeva dai suoi occhi su quella poltrona ingombra di carne umana.

Giovanni era felice: buon sangue non mente; se vuoi capire la figlia, guarda la madre! E se la madre era capace di mandare uno sguardo così vivamente affettuoso su un uomo come il marchese, egli, Giovanni, che al confronto del marchese era un Apollo, avrebbe potuto ingrassare, imbruttire e perdere i capelli tranquillamente sotto gli occhi di Ninetta! Ne avrebbe sempre ricevuto uno sguardo pieno d’affetto. Che gente fine santo cielo! E come rimanevano graziose le donne, in quella famiglia! La marchesa portava i suoi parecchi anni sul viso come una giovane veneziana porta una mascherina. Gli veniva voglia di buttarsi a faccia per terra e ringraziare Dio misericordioso!

Come, del resto, faceva il suo cameriere, nella casa di Cibali. Il vecchio Paolo aveva subito un nuovo colpo sul timone delle proprie abitudini, ma sempre in direzione opposta al lavoro e alla solerzia. Il parroco di Cibali era riuscito a farlo confessare, e a strappargli dì bocca tutte le parolacce di cui era piena la sua vita. “Io non insulto nessuna creatura di Dio, padre!” aveva detto il servitore, inginocchiato fra l’odore delle vecchie salse che esalava da tutte le macchie del suo giubbone. “E’ una creatura di Dio la padella, o la teiera?”

Il sacerdote aveva spiegato che l’odio, ovunque indirizzato, offende sempre l’anima che lo accoglie; che anche le cose inanimate sono figlie del Signore; e che le parolacce vengono registrate nel libro del cielo, e saranno rinfacciate nel giorno del Giudizio, anche se le suppellettili, a cui sono state rivolte, non saranno presenti nella valle di Josafat.

Il vecchio uscì con le mani ficcate nei capelli: doveva ripetere, per penitenza, cento Pater Noster, cinquanta Credo e quaranta Ave Maria, Ma egli ne ripeté un numero infinito. Dal giorno della confessione, qualunque pretesto fu buono per inginocchiarsi e scandire preghiere a fior di labbra, Se cadeva a terra una spazzola, egli la raccattava in ginocchio, e si faceva dieci volte il segno della croce prima di rialzarsi; se passava accanto a un’immagine sacra, vi lasciava la mano sui piedi, per qualche minuto, e poi la portava alle labbra, baciandosi la punta delle dita nove volte. Siccome il parroco non aveva toccato l’argomento della pulizia, egli era rimasto sporco, e le immagini sacre portavano tutte la traccia delle sue dita, mentre egli stesso portava sulla fronte, in nero di vernice o in un unto d’olio, il primo dei tre nomi della croce. La sua lentezza nel servire crebbe a dismisura. Riconciliatosi col gatto d’Angora, che la mattina gli saltava sul letto e gli si rincantucciava sotto la schiena, egli non osava alzarsi finché la piccola bestia tenesse gli occhi chiusi, per non interromperne il sonno. “Nun mi pozzu tuculiari!” rispondeva al suo padrone che suonava furiosamente.

“Meno male,” gridava Giovanni, dalla sua camera, “che codesto spasso ti sta per finire!” (Alludeva alla circostanza che si sarebbe fra poco sposato.)

Infatti, coll’entrare della primavera, il mese di giugno, nel quale erano fissate le nozze, si profilava sempre più vicino. A mano a mano che s’approssimava il giorno stabilito, Giovanni diventava più felice, debole e pauroso, mentre Ninetta (e questo fu una vera fortuna) diventava un diavolo di energia e di prontezza. Con lettere, telegrammi, telefonate, chiedendogli ogni momento se approvasse, e rispondendo egli sì senza capire bene che cosa avesse approvato, ai primi di maggio Ninetta riuscì a stabilire che egli sarebbe entrato in una società anonima per la manifattura dei tessuti, e fece ella stessa una corsa nella lontana città del Nord, per dare gli ultimi tocchi alla casa in cui avrebbe abitato col marito, e che una zia aveva già preparato accuratamente.

“E’ un nido!” ripeté, quando fu tornata. “E’ un nido!”

Giovanni non riuscì ad avere alcuna notizia sul numero delle stanze, la forma dei mobili, e il colore delle pareti: tutto questo insieme di minuzie costituiva la sorpresa che Ninetta avrebbe fatto al marito.

Giovanni, in questa occasione, ricordò il tempo della prima fanciullezza, quando, nel giorno di Ognissanti, alle sue domande sui giocattoli che i morti gli avrebbero fatto trovare l’indomani sotto il letto, entro le scarpe e nel pitalino, la madre rispondeva: “Domani lo saprai!” e i suoi occhi s’inumidirono. Quando pensava alla madre, era preso da una tenerezza così struggente e paterna che non poteva più parlare.