(Ninetta singhiozzava: “A chiave!”) E quando Luisa gli mostrava la carta firmata da lui tante volte, il marito, con rozzezza degna della frusta, rideva dentro il muso, e diceva: “Libertà di andare sugli sci? Ecco gli sci! Vacci!” E indicava la scopa. Un cuore infernale! Giunse fino alla volgarità di dire a una ragazza come Luisa, educata in Isvizzera insieme alla principessa del Belgio: “Libertà di andare a cavallo? Vieni pure: ecco il tuo cavallo, cara!” E seduto com’era, in mutande, alzava e abbassava le ginocchia strette, come si fa coi bambini.

Giovanni si mise a ridere, con la sua grossa e buona risata: “Oh, io non sarò così, mi puoi credere!”

Poiché erano al buio, Ninetta andò a girare il tasto della luce per guardarlo in viso: temeva forse di trovargli quell’espressione “sguaiata e cattiva”, di cui Luisa aveva parlato tremando come una foglia: vi trovò invece una tale bontà e mansuetudine, una tale abbondante serie di sì, da sgranocchiare per tutti gli anni avvenire, che aprì le braccia dalla gioia e gliele strinse intorno al collo.

Da quella sera, bisognò che anche la mano sinistra di Giovanni ricevesse in tutte le sue dita i nomi di altre libertà: ma si trattava di piccole concessioni come quella di abbonarsi a una rivista di mode svizzera, o di usare i profumi di Elizabeth Arden.

Giovanni compì un nuovo sforzo di memoria, aiutandosi con un bigliettino che leggeva di nascosto dalla fidanzata, e in cui eran disegnate le proprie dita con le libertà corrispondenti.

Ma, in fondo, che importavano questi leggeri fastidi, al paragone della felicità che ne riceveva in cambio?

Tutte le più fresche ore della sua vita gli erano presenti, specie quelle dei mattini del ’906 e ’907. La natura, vista alla prim’alba, nel finestrino della diligenza, con gli alberi turchini sul cielo rosso, l’erba che usciva dalla rugiada e le pecore dai lavatoi, si sostituiva continuamente a quella che, in realtà, aveva intorno. Gli tenevano compagnia i canti dei galli, i gorgheggi dei rosignoli, i suoni di campanelli, ma ardenti e curiosi di vita come quando colpivano il suo orecchio di seienne. I muli, di notte, trainando i loro carri verso la campagna, tornavano a guardare davanti a sé con l’occhio che illumina le cose a guisa di lanterna. E poi!… La pace, che s’era stabilita fra Giovanni e le donne fin da quando Ninetta gli aveva preso la mano nella Casa degli Spettri, continuava in una forma più alta. Il viso di Ninetta, malinconico, dolce e imperioso, vegliava, in nome della Donna, sui pensieri di Giovanni, e impediva loro d’intorbidarsi. Pareva, infatti, che un muto rimprovero errasse in fondo a quegli occhi, come il tuono al di là dell’orizzonte, nelle sere d’ottobre; pronto, questo rimprovero, a venire avanti e scoppiare, se Giovanni fosse tornato, sia pure per un minuto, alle sue fantasie sull’anello di Angelica, che permette di entrare non visti nella camera della timida e ignara Agatina, o sulla vecchia scena, tante volte ripetuta nel pensiero, dello sconosciuto in abito da marinaio, coi pantaloni gonfi di carne, e che poi si rivela per una donna.

Il quartiere delle case da tè, che levava, al disopra dei tetti, le sue persiane incatenate, a poca distanza dalla casa paterna di Giovanni; il quartiere su cui tante volte, prima di chiudere il balcone e andare a letto, egli aveva gettato uno sguardo bieco e sospiroso, osservando come da quelle mura si partisse una nebbia grave, quasi di palude, ma più viva e animale, come il fiato di una mandria, e avvolgesse nel suo velo fitto la costellazione di Perseo e dei Gemelli; il quartiere, in cui, passando di corsa per l’unico piacere di passarvi, se si udiva uno scoppio di risa misto di tosse, se ne rimaneva zuppi dai piè alla testa, come per aver ricevuto addosso un secchio d’acqua; quel quartiere era ormai abitato per Giovanni da esseri mostruosi e inutili. Una delle paure, che lo avvicinavano maggiormente allo stato di bambino, era quella che un bel giorno le orme lasciate dai suoi passi durante la vita diventassero fosforescenti, e catene su catene di pedate luminose lo legassero, in modo chiaro a tutti, alle viuzze e ai portoncini bassi del quartiere famigerato.

Per fortuna, abitava ancora a Cibali, nell’aria del mare e dei giardinetti di limoni. Barbara gli aveva mandato inutilmente un bigliettino scritto a matita: “Torna nella casa di tuo padre!”

“Oramai quello ch’è fatto è fatto!” aveva risposto Giovanni.

Ma questo suo modo di comportarsi (caso straordinario) non piacque a Ninetta. “Io desidero,” disse la ragazza, “desidero conoscere le mie cognate! Ho saputo che sono tanto brave.”

“Sì,” mormorò Giovanni, “sono brave, ma la nostra casa, un po’ all’antica…”

“Che vuol dire? Le case non devono essere per forza moderne: basta che siano pulite!”

“E’ quello che io dico” pensò Giovanni, rivedendo, con la mente, uno dopo l’altro, tutti i barattoli, le scatole vuote e le boccette di cui erano ingombri gli armadi e i tavolini della casa paterna. “Si può dire ch’è sporca?” continuò a pensare. “No, non si può dire. Ma si vede un’indifferenza verso le cose vecchie e da rimuovere che somiglia all’incuria e alla sporcizia!”

Comunque, fu necessario avvertire Barbara che l’indomani sarebbe venuto con la fidanzata.

“E anche col padre, col marchese!” disse Lucia. “Non potranno certo venir soli, due fidanzati!… Anche col marchese!”

A quella parola nobiliare, la confusione nella casa cresceva, e tutte, aggirandosi quali gatti impauriti, cadevano in certi passi sempre evitati per l’innanzi che le portavano su talune mattonelle spiccicate del pavimento, per cui gli armadi e le consolle trasalivano anch’essi, come di paura: “Col marchese!”

Per la grande emozione, dopo una serie interminabile di prove e controprove sul modo di aprire la porta, la vecchia cameriera ebbe un capogiro che la mandò a testa giù sul tappeto.

“Ha la febbre, Dio mio, ha la febbre!” disse Rosa, dopo aver tastato la fronte della vecchia rinvenuta a metà. “Bisogna metterla a letto!”

E infatti, sostenuta dalle tre sorelle, la donna fu portata nel suo camerino e sdraiata sul materasso di crine.

L’indomani, Giovanni e Ninetta, entrando, quasi accecati, nel corridoio buio, videro una figura con le coperte del letto sulle spalle. “E’ la cameriera!” spiegò Lucia; e aggiunse, nell’orecchio del fratello: “Sta male; si alza ogni momento… perché sta molto male!”

“E il marchese?” domandò Barbara, guardando nella scala buia. “Papà non è potuto venire!” disse Ninetta. “Si scusa tanto!” “Siete soli?” fece Barbara, sempre indecisa a richiudere la porta. “Sì, sì,” rispose In fretta Giovanni. “Andiamo nel salotto.”

Tutte le lampade della casa erano state riunite nel salotto, ove gli occhi non trovavano alcuna cosa che non fosse accecante. Pareva dì stare in una bottiglia piena di fiammelle.

“Spegniamo queste!” disse Giovanni, riportando il buio in tutta una fila di vetri. Ninetta sedeva sul divano basso, e le tre sorelle, in cerchio davanti a lei, su tre altre sedie imbottite. Dicevano poche parole e la fissavano in silenzio. Giovanni, in piedi, si ficcava, pur non sapendo darsi ragione di questo disagio, le unghie nella palma. Gli pareva che, dagli occhi delle tre donne, si affacciassero i più vecchi e tristi animali domestici: gatti privi di forza, topi di dispense ammuffite, mosche d’inverno, e guardassero Ninetta con uno sguardo stanco e senz’affetto. Sentiva poi l’odore stantio del proprio sonno, dormito a pomeriggi. interi, nella camera accanto, e notava un’infinità di minuzie fuori posto che gli mandavano al viso vampate subitanee. Seguiva poi con l’orecchio il passo lontano e strascicato della serva che giungeva lentamente a una porticina, nel fondo del corridoio… Ecco d’un tratto, impercettibile forse, ma per lui vicinissimo, come se gli oggetti da cui proveniva gli strisciassero sull’orecchio, il rumore della catenella e dell’acqua che si rovescia. Guarda Ninetta per accertarsi se la spregevole scena, ch’è legata a quel rumore, sia apparsa per un attimo anche a lei.