Forse non sarei dovuto andar via, non dovevo lasciarla sola. Ma dove mi trovo ora?
Salivano lentamente passando fra ville modeste.
Ora Fridolin credette di orientarsi, in tempi passati si era talvolta spinto fin là durante le sue passeggiate: forse avevano preso la strada del Galitzinberg. A sinistra, nella valle, vide brillare, sfumate nella nebbia, le mille luci della città. Sentì rumore di ruote e guardò indietro dal finestrino. Fu contento che due vetture lo seguissero, così non poteva destare alcun sospetto nel cocchiere della carrozza funebre.
All’improvviso la carrozza voltò di lato con un poderoso scossone e cominciò a scendere come in una gola fra cancelli, muri e pendii. Fridolin pensò ch’era ormai tempo di mascherarsi. Si tolse la pelliccia e indossò il saio, proprio come usava fare ogni mattina nel suo reparto d’ospedale quando s’infilava il camice; e si sentì come sollevato al pensiero che fra poche ore, se tutto andava bene, avrebbe fatto il suo giro come ogni giorno fra i letti dei suoi malati - un medico pronto a soccorrere.
La carrozza si fermò. Se non scendessi affatto, pensò Fridolin… e tornassi invece subito indietro? Ma dove andare? Dalla piccola Pierrette?
Dalla donnina nella Buchfeldgasse? O da Marianne, la figlia del defunto? Oppure a casa? E si accorse con leggero raccapriccio che nessun altro posto lo attirava meno di casa sua. O era così perché la strada di casa gli sembrava la più lunga? No, non posso tornare indietro, pensò. Avanti, in ogni caso, anche a costo di morire! Rise della parola grossa, ma non si sentiva certo in vena di scherzare.
Il cancello di un giardino era spalancato. La carrozza funebre dinanzi a lui s’inoltrò più giù nella gola, o nell’oscurità che gli faceva tale effetto. Nachtigall, comunque, doveva essere già sceso.
Fridolin smontò a sua volta in fretta, ordinò al cocchiere di attendere il suo ritorno sulla curva prima della discesa, anche se si tratteneva a lungo. E per sentirsi più sicuro lo pagò largamente in anticipo e gli promise la stessa somma per il viaggio di ritorno. Intanto giunsero le carrozze che seguivano la sua. Dalla prima Fridolin vide scendere una donna velata; poi entrò nel giardino e si mise la mascherina; uno stretto sentiero, illuminato dalla casa, conduceva al portone, due battenti si spalancarono e Fridolin si trovò in un piccolo atrio bianco. Fu accolto da un suono di armonium, a destra e a sinistra c’erano due servitori in livrea scura, il volto coperto da una mascherina grigia.
«Parola d’ordine?» gli fu sussurrato a due voci.
«Danimarca» rispose. Uno dei servitori prese la sua pelliccia e sparì in una stanza attigua, l’altro aprì una porta e Fridolin entrò in un salone in penombra, quasi buio, le pareti rivestite di seta nera. Alcune maschere, tutte in costumi ecclesiastici, andavano qua e là; erano circa sedici, venti persone, monaci e monache. L’armonium suonava una melodia sacra italiana che, crescendo dolcemente, sembrava scendere dall’alto.
In un angolo della sala era fermo un gruppetto di tre monaci e due monache; lo guardarono di sfuggita ma distolsero subito lo sguardo, quasi di proposito. Fridolin si accorse di essere l’unico ad avere il capo coperto, si tolse il cappello da pellegrino e passeggiò avanti e indietro, cercando di dare il meno possibile nell’occhio; un monaco gli sfiorò il braccio e salutò con un cenno del capo; ma da dietro la mascherina uno sguardo penetrante si fissò per un secondo negli occhi di Fridolin. Fu avvolto da un profumo strano, eccitante, come di giardini del Sud. Un braccio lo sfiorò di nuovo.
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