Forte come la morte
Maupassant
FORTE COME LA MORTE
PARTE PRIMA
I
Il giorno penetrava nel vasto studio attraverso il lucernario aperto nel soffitto. Era un gran quadrato di luce splendente e cerulea, un foro limpido su un infinito distante, azzurro nel quale sfrecciavano stormi di uccelli.
Ma, appena entrato nell’alta stanza, severa e tappezzata di stoffa, il festoso bagliore del cielo si attenuava, si addolciva, si assopiva sulle stoffe, andava a spegnersi sulle tende, rischiarava appena gli angoli scuri dove soltanto le cornici dorate si accendevano come tanti fuochi. Quiete e sonno sembravano imprigionati là dentro, quella quiete tipica delle case degli artisti, in cui l’anima umana ha lavorato. Fra quelle pareti dove il pensiero dimora, pulsa, si esaurisce in sforzi violenti, sembra che tutto sia stanco, sfibrato appena il pensiero si placa. Tutto sembra morto, dopo quegli accessi di vita, e tutto riposa: mobili, stoffe, le grandi figure incompiute sulle tele, quasi che la casa intera abbia sofferto della fatica del padrone, si sia tormentata con lui, partecipando tutti i giorni alla sua lotta senza fine. Un vago odore soporifero di colori, trementina e tabacco aleggiava, trattenuto dai tappeti e dalle poltrone; e nessun altro rumore turbava il pesante silenzio ad eccezione del garrire breve e vivace delle rondini che passavano sulla vetrata aperta, e del prolungato brusio di Parigi che si udiva appena al di sopra dei tetti. Nulla si muoveva, fuorché un discontinuo piccolo sbuffo di fumo che, come una nuvola si alzava verso il soffitto ad ogni boccata della sigaretta che Olivier Bertin, steso sul divano, soffiava lentamente.
Con lo sguardo perso nel cielo lontano, cercava il soggetto per un nuovo quadro. Cosa avrebbe potuto fare? Ancora non lo sapeva. Egli non era, d’altronde, un artista risoluto e sicuro di sé, ma un inquieto, dall’ispirazione indecisa che lo faceva continuamente esitare fra tutte le tendenze dell’arte. Ricco, famoso, aveva conquistato tutti gli onori, ma rimaneva, verso la fine della sua vita, un uomo che ancora non sapeva con precisione verso quale ideale aveva proceduto.
Aveva ricevuto il «premio di Roma», difensore delle tradizioni, aveva rievocato, sulla scia di tanti altri, i grandi avvenimenti storici; poi, modernizzando le proprie inclinazioni, aveva dipinto uomini vivi, fra ricordi classici. Intelligente, entusiasta, lavoratore costante dalle visioni mutevoli, innamorato della propria arte che conosceva alla perfezione, aveva acquisito, grazie all’eccezionalità del suo spirito, notevoli qualità di esecuzione, e una grande duttilità di talento, nata in parte dalle esitazioni e dai suoi tentativi in tutti i generi. Forse anche l’entusiasmo improvviso della società per le sue opere eleganti, raffinate e corrette, aveva influenzato il suo carattere impedendogli di essere quello che sarebbe normalmente divenuto. Dopo il trionfo iniziale, era sempre turbato dal desiderio di piacere che, senza rendersene conto, modificava segretamente la sua strada, attenuava le sue convinzioni. Questo desiderio di piacere appariva, d’altronde, in lui sotto tutte le forme, e aveva molto contribuito alla sua gloria.
Il suo piacevole modo di fare, tutte le consuetudini della sua vita, la cura della propria persona, l’annosa reputazione di forza e abilità, di spadaccino e di cavaliere, avevano formato un corteo di piccole notorietà alla sua celebrità crescente.
Dopo Cleopatra, la prima tela che lo aveva reso famoso, Parigi si era improvvisamente innamorata di lui, lo aveva adottato, festeggiato ed era subito divenuto uno di quei brillanti artisti mondani che si incontrano al Bois, i salotti si contendono e l’Accademia accoglie giovanissimi. Egli vi era entrato da conquistatore, con l’approvazione dell’intera città.
La fortuna l’aveva guidato così fino alle soglie della vecchiaia, viziandolo e accarezzandolo.
Dunque, sotto l’influenza della bella giornata, che sentiva sbocciare fuori, era alla ricerca di un soggetto poetico. Leggermente intorpidito dalla sigaretta e dalla colazione, fantasticava, lo sguardo perso, tracciando rapidi schizzi di figure nell’azzurro: graziose donne in un viale del Bois o sul marciapiede di una via, innamorati su una riva, tutte le fantasie galanti in cui si compiaceva il suo pensiero. Le immagini mutevoli si disegnavano sul cielo, indefinite e mobili nella colorata allucinazione del suo occhio; e le rondini che rigavano lo spazio con un volo incessante di frecce lanciate, sembravano volerle cancellare, come con tratti di penna.
Non trovava nulla! Tutte le figure intraviste rassomigliavano a cose già fatte, tutte le donne apparse, erano figlie o sorelle di quelle che il suo capriccio di artista aveva già creato; e il timore ancora confuso, che da un anno lo ossessionava, di essersi esaurito, di avere realizzato tutti i suoi soggetti, di essersi inaridita la sua ispirazione, si andava delineando davanti a quella rassegna della sua produzione, davanti a quell’impotenza di immaginare cose nuove, di scoprire l’ignoto.
Si alzò mollemente per cercare nelle cartelle, fra i progetti abbandonati, qualche cosa che potesse destare in lui una idea.
Sempre fumando, si mise a sfogliare gli schizzi, i disegni, i bozzetti conservati chiusi in un grande armadio antico; poi, amareggiato per quelle vane ricerche, abbattuto e depresso, gettò la sigaretta, fischiettò un’aria popolare, e, abbassandosi, raccolse sotto una sedia un pesante manubrio che ivi giaceva.
Rialzato con l’altra mano un drappeggio che celava lo specchio che gli serviva per controllare la esattezza delle pose, verificare le prospettive, provare la verità, e postosi di fronte, guardandosi, iniziò ad esercitarsi.
Era stato famoso tra gli artisti per la sua forza, poi in società per la sua bellezza. Ora l’età cominciava a pesare su di lui, appesantendolo. Alto, spalle larghe, ampio torace, aveva messo un po’ di pancia, come un vecchio lottatore, nonostante continuasse a tirare di scherma tutti i giorni e a montare a cavallo con assiduità. La testa era rimasta notevole e bella come un tempo, anche se in modo diverso. I capelli bianchi, folti e corti, ravvivavano l’occhio nero, sotto le folte sopracciglia grigie. I baffi forti, baffi da vecchio soldato, erano rimasti quasi neri, e davano al suo volto un sorprendente carattere di energia e fierezza. In piedi davanti allo specchio, talloni congiunti e corpo eretto faceva descrivere alle due palle di ghisa, tutti i movimenti prescritti con la estremità del braccio muscoloso, di cui seguiva con sguardo compiacente lo sforzo tranquillo e possente.
Ma improvvisamente, in fondo allo specchio dove era riflesso tutto lo studio, vide muovere una tenda, poi apparire una testa femminile, solo una testa che guardava. Una voce, dietro a lui, domandò:
«Ci siete?»
Egli rispose: «Presente», voltandosi. Poi gettando sul tappeto il manubrio, corse verso la porta con agilità un poco forzata.
Una donna in abito chiaro entrò. Quando si furono stretti la mano:
«Stavate facendo degli esercizi,» ella disse.
«Sì,» rispose. «Facevo il pavone e mi sono lasciato sorprendere.»
Ella rise, e riprese:
«La portineria era vuota e poiché so che siete sempre solo a quest’ora, sono entrata senza farmi annunciare.»
Egli la guardava.
«Perbacco! Come siete bella. Che eleganza!»
«Sì, ho un abito nuovo. Lo trovate grazioso?»
«Incantevole, di grande armonia. Ah! decisamente oggi non manca il senso delle tonalità.»
Egli le girava attorno, toccava la stoffa, modificava con la punta delle dita la disposizione delle pieghe, da uomo che conosce gli abiti come un sarto, avendo adoperato sempre il suo pensiero d’artista e i suoi muscoli d’atleta per raccontare, con la sottile barba dei pennelli, le mode mutevoli e raffinate, per rivelare la grazia femminile rinchiusa e imprigionata nelle armature di velluto e di seta, o sotto il candore dei pizzi.
Finì per dichiarare:
«È veramente riuscito.
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