Vi sta benissimo.»

Lei si lasciava ammirare, contenta di essere bella e piacergli. Non più giovanissima, ma ancora bella, non molto alta, leggermente appesantita, ma fresca, con quello splendore che dà alla carne di quarant’anni un sapore di maturità, sembrava una di quelle rose che rimangono schiuse per troppo tempo, finché eccessivamente fiorite avvizziscono in un’ora.

Conservava sotto i capelli biondi la grazia vivace e giovanile di quelle parigine che non invecchiano, che hanno in sé una sorprendente forza vitale, una scorta inesauribile di resistenza, e che per vent’anni restano uguali, indistruttibili e trionfanti, attente prima di tutto al loro corpo ed econome della loro salute.

Alzò il velo e mormorò: «Ebbene, non mi baciate?»

«Ho fumato,» lui disse.

Ella fece: «Puah!» Poi porgendo le labbra: «Tanto peggio.»

E le bocche s’incontrarono.

Le tolse l’ombrello e la giacchetta primaverile, con movimenti rapidi e sicuri, avvezzi a quella consueta operazione. Poi, mentre lei sedeva sul divano, domandò con interesse:

«Vostro marito sta bene?»

«Benissimo, anzi deve parlare alla Camera proprio ora.»

«Ah! e su che?»

«Certo sulle barbabietole o sugli olii di colza, come sempre.»

Il marito, il conte di Guilleroy, deputato dell’Eure, era uno specialista di problemi agricoli.

Ma, avendo scorto in un angolo uno schizzo che non aveva mai visto, ella attraversò lo studio e domandò:

«Cos’è questo?»

«Un pastello appena iniziato, il ritratto della principessa di Pontève.»

«Sapete,» ella disse con aria grave, «che, se ricominciate a fare ritratti di donna, io chiuderò il vostro studio. So benissimo dove porta un simile lavoro.»

«Oh!» egli disse, «non si fa due volte un ritratto di Any.»

«Lo spero bene.»

Esaminò il pastello incominciato da buona intenditrice d’arte. Si allontanò, si riavvicinò, con la mano si riparò dalla luce, cercò il punto nel quale lo schizzo fosse meglio illuminato, poi si dichiarò soddisfatta.

«È ottimo. Voi riuscite perfettamente nei pastelli.»

Egli mormorò, lusingato:

«Trovate?»

«Sì, è un’arte delicata, in cui occorre molto garbo. Non è fatta per i pittori grossolani.»

Da dodici anni ella appoggiava la tendenza di lui per l’arte raffinata, combatteva i suoi ritorni alla semplice realtà, e con considerazioni di eleganza mondana, lo spingeva con tenerezza verso un ideale di grazia, un poco manierata e artificiale.

Domandò:

«Com’è la principessa?»

Dovette darle mille particolari di ogni tipo, quei particolari minuziosi in cui si compiace la curiosità gelosa e sottile delle donne, passando dalle osservazioni sull’abbigliamento alle considerazioni sullo spirito.

E improvvisamente:

«Si comporta da civetta con voi?»

Egli rise, e giurò di no.

Allora, posando le due mani sulle spalle del pittore, lo guardò fissamente. L’ardore della domanda faceva fremere la pupilla rotonda in mezzo all’iride azzurra, macchiata d’impercettibili punti neri, come schizzi d’inchiostro.

Di nuovo mormorò:

«Davvero non è civetta?»

«Oh! davvero!»

Ella aggiunse:

«D’altronde, sono tranquilla. Voi non amerete che me ora. È finita, finita per le altre. È troppo tardi, mio povero amico.»

Egli fu sfiorato da quel leggero fremito penoso che tocca il cuore degli uomini maturi, quando si parla della loro età, e mormorò:

«Oggi, domani, come ieri, non c’è stata e non ci sarà nessuna altra che voi nella mia vita, Any.»

Allora presogli il braccio e, tornando verso il divano, lo fece sedere accanto a sé.

«A che pensavate?»

«Cerco il soggetto per un quadro.»

«E quale?»

«Non lo so, dato che lo cerco.»

«Che cosa avete fatto in questi giorni?»

Le dovette raccontare tutte le visite che aveva ricevuto, i pranzi, le serate, le conversazioni e i pettegolezzi. Entrambi erano interessati, d’altronde, a tutte quelle cose futili e consuete della vita mondana. Le piccole rivalità, le relazioni conosciute o sospettate, i giudizi scontati, mille volte ripetuti, mille volte ascoltati sulle stesse persone, gli stessi avvenimenti e le stesse opinioni, trascinavano e immergevano i loro spiriti in quel fiume torbido e agitato che si chiama la vita parigina. Conoscendo tutti dovunque, lui come artista davanti al quale tutte le porte erano aperte, lei come moglie elegante di un deputato conservatore, erano esercitati nello sport della conversazione francese fine e banale, amabilmente malevola, inutilmente spiritosa, volgarmente raffinata, che dà una reputazione particolare e invidiatissima a coloro la cui lingua si è assottigliata in quel cicaleccio maldicente.

«Quando venite a pranzo?» lei domandò ad un tratto.

«Quando vorrete. Dite voi il giorno.»

«Venerdì. Ci saranno la duchessa di Mortemain, i Corbelle e Musadieu, per festeggiare il ritorno di mia figlia che arriva questa sera. Ma non ditelo, è un segreto.»

«Oh! certo che accetto! Sarò felice di rivedere Annette. Non la vedo da tre anni.»

«È vero, da tre anni.»

Cresciuta prima a Parigi presso i genitori, Annette era diventata l’ultimo affetto di sua nonna, la signora Paradin, che, quasi cieca, abitava tutto l’anno nella proprietà del genero, il castello di Roncières, nell’Eure. A poco a poco, l’anziana donna aveva tenuto la bambina sempre più con sé, e, siccome i Guilleroy passavano quasi metà del loro tempo in quella tenuta, dove erano continuamente richiamati da interessi di ogni genere, agricoli ed elettorali, avevano finito per condurre a Parigi solo di quando in quando la bambina, la quale, d’altronde, preferiva la vita libera e attiva della campagna a quella rinchiusa della città.

In tre anni, anzi, vi era andata una sola volta, poiché la contessa preferiva tenerla del tutto lontana per non farle scoprire un piacere nuovo prima del giorno fissato per la sua presentazione in società. La signora di Guilleroy l’aveva affidata laggiù a due istitutrici diplomate e aumentava le sue visite alla madre e alla figlia. Il soggiorno di Annette al castello era, d’altra parte, reso quasi necessario dalla presenza della vecchia donna.

Un tempo, Olivier Bertin andava ogni estate a passare sei settimane o due mesi a Roncières; ma da tre anni i reumatismi lo avevano costretto a recarsi in lontane città termali, le quali avevano talmente ravvivato il suo amore per Parigi, che, rientrandovi, non poteva più lasciarla.

La fanciulla, in principio, non avrebbe dovuto ritornare che in autunno, ma suo padre aveva improvvisamente concepito un progetto matrimoniale per lei, e l’aveva richiamata affinché incontrasse immediatamente colui che le destinava come fidanzato, il marchese di Farandal. Questa combinazione però era tenuta segretissima, e unicamente Olivier Bertin ne era al corrente tramite la signora di Guilleroy.

Dunque egli domandò:

«Ma l’idea di vostro marito è definitiva?»

«Sì, e la credo anche felicissima.»

Poi, parlarono d’altro.

Lei ritornò alla pittura, e volle persuaderlo a dipingere un Cristo. Egli si oppose, poiché pensava che ce ne fossero già troppi nel mondo; ma lei con ostinazione insisteva spazientendosi.

«Oh! se sapessi disegnare vi mostrerei il mio pensiero; sarebbe nuovissimo e arditissimo. Il Cristo viene deposto dalla croce, e l’uomo che ha staccato le mani, lascia cadere la parte superiore del corpo. Egli cade, e si abbatte sulla folla che alza le braccia per riceverlo e sostenerlo. Capite?»

Sì, egli capiva; trovava anche la concezione originale, ma si sentiva in vena di modernità, e siccome l’amica, distesa sul divano, faceva oscillare un piede calzato in una elegante scarpa, dando all’occhio la sensazione della carne attraverso la calza quasi trasparente esclamò:

«Guardate, ecco quel che si deve dipingere, ecco la vita: un piede di donna che spunta da sotto un abito! Ci si può mettere tutto, verità, desiderio, poesia. Che c’è di più grazioso, di più attraente di un piede di donna; inoltre quale mistero: la gamba nascosta, perduta e indovinata sotto questa stoffa!»

Sedendosi per terra alla turca, afferrò la scarpa e la levò; e il piede, uscito dalla guaina di cuoio, si agitò come una bestiolina, irrequieta, sorpresa di essere lasciata libera.

Bertin ripeteva:

«Come è sottile e elegante, e nello stesso tempo materiale, più materiale della mano. Mostratemi la mano, Any.»

Portava dei guanti lunghi fino al gomito. Per toglierne uno lo prese all’orlo in alto e rapidamente lo fece scivolare proprio come quando si strappa la pelle di un serpente. Apparve il braccio bianco, pieno, rotondo, così presto svestito da dare l’idea di una nudità completa e audace.

Allora, ella stese la mano, lasciandola pendere all’estremità del polso.