Ma Gargantua, dubitando si trovassero lì subito brache adatte a quelle gambe, né sapendo quale foggia meglio s’attagliasse al detto oratore, se colla martingala ch’è il ponte levatoio del culo, per andar di corpo più comodamente; oppure alla marinara per meglio alleviare i rognoni; o alla svizzera per tener calda la trippa; o a coda di merluzzo per non riscaldare i reni, gli fece dare sette aune di panno nero e tre di bianchetto per la fodera.

La legna fu portata dai facchini; i maestri in arti portarono le salsiccie e la scodella. Mastro Giannotto volle portare il panno.

Uno dei detti maestri, chiamato Jousse Baudouille gli rimostrò che ciò non era né decoroso né conveniente allo stato teologale e ch’era meglio dare il panno a qualcuno di loro.

- Ah, disse Giannotto, somaro due volte, tu non concludi affatto in modo et figura. Ecco a che cosa servono le supposizioni e le parva logicalia. Pannus pro quo supponite?

- Confuse et distributive, disse Baudouille.

- Io non ti domando, o somaro, disse Giannotto, quomodo supponit, ma bensì pro quo: pro tibiis meis, s’ha a dire, somaro. E perciò lo porterò io, egomet, sicut suppositum portat adpositum.

E così lo portò lui, alla chetichella, come già Pathelin.

Il bello fu quando il tossicoloso, presentandosi trionfalmente all’assemblea della Sorbona, richiese in compenso le brache e le salsicce promesse. La Sorbona glie le negò recisamente, avendole egli ricevute da Gargantua come s’era risaputo. Egli obbiettò che quelle le aveva ricevute gratis e che la liberalità del donatore non li svincolava dalla loro promessa. Ciò nonostante gli fu risposto che si contentasse d’aver ragione, che altro non avrebbe ricevuto.

- Ragione? disse Giannotto. Ma non sta di casa qua dentro! Traditori, sciagurati, gente da nulla! Non c’è sulla terra gente più perfida di voi; me n’intendo bene io. Non claudicate davanti a uno zoppo; son del mestiere. Anch’io appartenni alla vostra combriccola. Per la coratella di Dio, avvertirò il re, degli abusi enormi che si perpetrano qua dentro per opera e intrigo vostro. E mi colga la lebbra se non vi faccio bruciar vivi tutti quanti come sodomiti, traditori, eretici e seduttori, nemici di Dio e di virtù.

A queste parole stesero un atto d’accusa contro di lui e lui a sua volta li fece citare. Insomma il processo fu assunto dalla Corte ed è sempre in corso. I Sorbonicoli per questa faccenda fecero voto di non più ripulirsi e Mastro Giannotto coi suoi di non più soffiarsi il naso, finché non fosse pronunciata la sentenza definitiva.

Ecco la ragione per cui son rimasti fino ad oggi tanto sporchi e mocciosi; infatti la Corte non ha ancora ben vagliato tutti i documenti. La sentenza uscirà alle prossime calende greche, cioè l’anno del mai. Poiché, voi ben lo sapete, i teologi della Corte superano la natura e vanno contro i loro stessi articoli. Gli articoli di Parigi cantano chiaro che Dio solo può fare cose infinite, che la Natura nulla può fare d’Immortale: ma dà fine e compimento a tutte le cose da essa prodotte: omnia orta cadunt etc.

Questi ingollatori di nebbia invece conferiscono Infinità e Immortalità ai processi. E ciò facendo hanno realizzato e dimostrato la massima di Chilone Lacedemone consacrata in Delfo, il quale affermava: Miseria esser compagna di Processo e miseri essere i litiganti, i quali vedono prima la fine della loro vita che il riconoscimento del diritto reclamato.

 

CAPITOLO XXI.

 

Lo studio e la dieta di Gargantua secondo la disciplina dei suoi professori sorbonagri.

 

Passati così i primi giorni e rimesse al loro posto le campane, i cittadini di Parigi riconoscenti all’onestà di Gargantua, gli offrirono di mantenere e nutrire la sua giumenta finché gli piacesse. E avendo egli gradito l’offerta, la inviarono a pascolare nella foresta di Bière; ma credo che ora non ci sia più.

Quindi volle mettersi alacremente allo studio sotto la disciplina di Ponocrate, ma questi, in principio, ordinò che seguitasse secondo il suo costume, affine di comprendere come in sì lungo tempo, gli antichi precettori avessero potuto renderlo tanto sciocco, zuccone, e ignorante. Egli regolava dunque così le sue giornate: si svegliava tra le otto e le nove, facesse chiaro o no: così avevano ordinato i suoi pedagoghi teologi allegando il detto di David: Vanum est vobis ante lucem, surgere: è vano sorgere prima della luce.

Poi con sgambetti, salti e capriole faceva un po’ di ginnastica sul letto per meglio destare gli spiriti animali, e si vestiva secondo la stagione, ma indossava volentieri una grande e lunga tunica di frisato grosso foderato di volpe; poi si pettinava col pettine di Almain, cioè colle quattro dita più il pollice, giacché i suoi precettori gli dicevano che pettinarsi in altro modo, e lavarsi e pulirsi era una perdita di tempo in questo mondo.

Poi cacava, pisciava, vomitava, ruttava, scorreggiava, sbadigliava, sputava, tossiva, dava il singhiozzo, sternutiva e si soffiava il naso all’arcidiacona; e faceva colazione, per combattere la rugiada e l’aria cattiva, con belle trippe fritte, belle braciole sulle bragie, bei prosciutti, bei capretti arrosto, e zuppe di prima in quantità. Ponocrate gli rimostrò che non doveva mangiare così subito appena alzato di letto senza aver fatto prima un po’ di ginnastica. E Gargantua rispose:

- E che? Non basta voltolarsi nel letto, come ho fatto cinque o sei volte prima di alzarmi? Papa Alessandro faceva altrettanto per consiglio del suo medico ebreo e visse fino alla morte, a dispetto degli invidiosi. I miei maestri così m’hanno avvezzato dicendo che la colazione rinforza la memoria e davano per primi l’esempio del bere. Io me ne trovo benissimo e pranzo anche meglio. Mastro Tubal, che primeggiò tra i licenziati di Parigi al suo tempo, mi diceva che non era tutto, correre velocemente, ma che bisognava anche partir di buon ora: parimenti la salute totale del genere umano non istà nel reiterar sorsate l’una dopo l’altra come anitre, ma nel cominciare a bere di buon mattino; unde versus:

 

Levarsi all’alba non allieta il cuore;

Ma tracannare all’alba è assai migliore.

 

Dopo una copiosa colazione dunque, andava in chiesa dove gli portavano, dentro un gran paniere, un grosso breviario impantofolato, pesante, tra untume, fermagli e pergamena, undici quintali e sei libbre, poco più, poco meno. Sentiva ventisei o trenta messe; intanto capitava il suo elemosiniere ufficiale imbacuccato come un allocco e col fiato bene antidotato a forza di sciroppo vinoso.

Borbottava con esso tutti i suoi Kirie e con tanta attenzione se li sorbiva, da non lasciarne cadere una goccia.

Uscendo di chiesa gli conducevano sopra un carro di buoi un mucchio di rosarii di San Claudio, coi grani grossi quanto lo stampo d’un berretto; e passeggiando per chiostri, gallerie, o giardini ne sgranava da solo più di sedici eremiti.

Poi studiava una mezz’oretta, gli occhi fissi sul libro ma l’anima in cucina, come diceva il Comico.

Dopo aver pisciato un orinale pieno, sedeva a tavola. E poiché era per natura flemmatico, cominciava il pasto con qualche dozzina di prosciutti, di lingue di bue affumicate, di bottarghe, di salsiccie e simili altre avanguardie del vino. Intanto quattro camerieri gli gettavano in bocca palate di mostarda l’una dopo l’altra senza tregua; poi ci beveva su una spaventevole sorsata di vino bianco per sollevare i rognoni. Quindi mangiava, secondo la stagione, le carni che desiderava e non cessava di mangiare se non quando la pelle gli tirava.