Né a bere conosceva termine o regola, poiché, diceva, solo termine e confine del bere essere quando il sughero delle pantofole per ringonfiamento si alzasse di un mezzo piede.

 

CAPITOLO XXII.

 

I giochi di Gargantua.

 

Poi, borbottando alla grossa un tocco d’orazione di ringraziamento, si lavava le mani con vin fresco, si curava i denti scarnificando un piede di maiale e chiacchierava allegramente coi suoi. Quindi, steso il tappeto verde, mettevan fuori mucchi di carte, di dadi e scacchiere.

E là giocava:

 

a goffo, a passadieci,

a primiera, a trentuno,

a rubamazzo, a pari e sequenza

a pigliatutto, ai trecento,

a trionfo, ai disgraziati,

a piccardia, alla condannata,

al centro, a carta voltata,

alla spinetta, al malcontento,

alla sfortunata, al lanzichenecco,

alla furba, al cucú,

a chi l’ha lo dica, a tavole intere,

a piglia,niente,gioca,fuori, a tavole abbassate,

a matrimonio, a rinnegadio,

al gallo, al forzato,

all’opinione, a dama,

a chi fa l’uno fa l’altro, a babuino,

a sequenza, a primus secundus,

all’uvette, a piè di coltello,

ai tarocchi, alle chiavi,

a cochinverde, chi vince perde al centro del quadrato,

al belinato, a pari e dispari,

al tormento, a testa e corona,

alla ronfa, alle martore,

al glic, agli aliossi,

agli onori, a bilia,

alla morra, al ciabattino,

agli scacchi, al gufo,

alla volpe, a leprottino,

a campana, a tirlintana,

alle vacche, ad avanti porchetto,

alla bianca, alle gazze,

alla fortuna, al corno,

alla zara, al bue,

alle tavole, alla civetta,

a nicca nocca, a ti pizzico senza ridere,

al lurco, alle beccate,

alla reginetta, a sferrar l’asino,

a sbaraglino, a trotta gregge tru,

al trictrac, a va somaro, su,

a io mi siedo, alle vallette,

alla barba d’oribus, alla verghetta,

alla boschina, alle piastrelle,

a tira lo spiedo, a ci sto anch’io,

alla botte in fiera, a spegnimoccolo,

a compare, prestami il tuo ai birilli,

sacco, al Siam,

alla coglia di montone, a palla piatta,

a buttafuori, al verrettone,

ai fichi di Marsiglia alla lippa,

alla mosca, a rosicamerda,

a dagli, arciere, dagli, ad Angenart,

a scuoiavolpe, alle boccie in corte,

alla granata, al volano,

all’uncino madama, a scondarella,

a vender l’avena, alla pentolaccia,

a soffiare il carbone, a mio talento,

ai responsori, al mulinello,

a giudice vivo e giudice ai giunchetti,

morto, a baston corto,

a trarre i ferri dal forno, a prillavola,

al finto villano, a mosca cieca,

ai quagliettini, al picchetto,

al gobbo di corte, alla bianca,

a San Trovato, al furetto,

a pizzica spugnole, alla seghetta,

al pero, al castelletto,

a pimpompetto, alla fila,

a trallalalella trallalalà, alla fossetta,

al cerchio, alla trottola,

alla troia, alla tromba,

a ventre contro ventre, al monaco,

alle tenebre, a beccalaglio,

allo stupito, alla grola,

al pallone, a gallo canta,

alla spola, a Colin maliardo,

a sculaccioni, a guardargli il muso,

alla scopa, allo spione,

a San Cosimo, vengo ad al rospo,

adorarti, al pallamaglio,

a lumacone il bruno, al pistone,

a vi colgo senza verde, a bilbochetto,

a pian pian bel bello se ne alle regine,

va quaresima, ai mestieri,

a quercia forcelluta, a testa a testa, o testa a

a caval per terra, piè,

alla coda del lupo, al pinotto,

a peto in gola, a mano morta,

a Guglielmino, dammi la ai buffetti,

mia lancia, a lavar la cuffia, madama,

a dondolarsi, allo staccio,

ai fasci di tre covoni, a seminar l’avena,

alla betulla, al ghiottone,

alla mosca, al molinetto,

a migna, migna, bue, a defendo,

agli spropositi, alla giravolta,

a nove mani, a schioppetto arrabbiato,

a testa pazza, a cul per terra,

a ponte caduto, all’aratro,

a bestia morta, alle fiche,

a monta monta la scaletta, alle pernacchie,

al porco morto, a pestamostarda,

a cul salato, a gambadilegno,

a l’uccellin volò, volò, alla ricaduta,

a caccia al terzo, a trar le freccie,

alle piramidi, a salincerchio,

a saltacespugli, alla gru,

a tagliar la strada, a taglia taglia,

alla cutt, ai biscottini sul naso,

al quattrino borsa in culo, agli schiaffi,

al nido di bozzagro, ai buffetti.

al passavanti.

 

Dopo aver ben giocato, stacciato, crivellato e passato il tempo, conveniva bere un pochino, cioè undici bigoncie a testa; e subito dopo banchettare, sopra un banco cioè, o sopra un bel lettone sdraiarsi e dormire due o tre ore senza cattivi pensieri, né maldicenza. Svegliatosi, scrollava un po’ le orecchie e intanto gli portavano vin fresco e beveva meglio che mai. Ponocrate gli rimostrava non esser igienico bere dopo dormire.

- Ma, rispondeva Gargantua, se è proprio questa la vita dei Padri. Io di mia natura dormo salato e il sonno mi tien luogo d’altrettanto prosciutto.

Poi cominciava a studiare un tantino e giù paternostri! Per meglio snocciolarli nella debita forma, montava sopra una vecchia mula che aveva servito nove re, e così, borbottando colla bocca e dondolando la testa, andava a veder prendere i conigli colle reti.

Al ritorno entrava in cucina per informarsi quale arrosto fosse allo spiedo. E cenava benone, in coscienza, e volentieri convitava qualcuno dei beoni vicini coi quali bevendo a gara, contavano e il vecchio e il nuovo.

Frequentavano la casa fra gli altri i signori De Fou, De Gourville, De Grignault e De Marigny. Dopo cena venivano in tavola: belli evangeli di legno, vale a dire scacchiere, o il bel flusso o un due tre o tutti gli altri giochi, tanto per farla breve, oppure andavano a trovare le ragazze dei dintorni e lì nuovi spuntini e pusigni e ripusigni. Poi dormiva tutto un sonno filato fino all’indomani alle otto.

 

CAPITOLO XXIII.

 

Come qualmente Gargantua fu educato da Ponocrate con disciplina tale che non perdeva

un’ora del giorno.

 

Quando Ponocrate conobbe la maniera sbagliata di vivere di Gargantua, deliberò d’istruirlo nelle lettere in modo diverso: ma pei primi giorni tollerò l’antico andamento considerando che la natura non sopporta mutazioni repentine senza grave malanno.

Per meglio cominciar l’opera sua supplicò un sapiente medico di quel tempo, nominato Teodoro, che studiasse il possibile per rimettere Gargantua su miglior via. Egli lo purgò, secondo le regole, con elleboro d’Anticira. Con tal medicina lo guarì dal disordine e dai vizi del cervello, e parimenti gli fe’ dimenticare tutto ciò che aveva imparato sotto gli antichi precettori, come già usava Timoteo per quei discepoli che erano stati istruiti da altri musici.

A meglio ottenere il suo fine, l’introdusse nelle compagnie dei sapienti di Parigi, a emulazione dei quali gli crebbe l’ardore e il desiderio di studiare in modo diverso e di far apprezzare il suo valore.

Poi gli diede tale indirizzo di studi che non perdeva un’ora del giorno e dava tutto il suo tempo alle lettere e all’onesto sapere.

Si svegliava infatti Gargantua circa le quattro del mattino. Mentre gli facevano il massaggio, gli si leggeva qualche pagina della Sacra Scrittura a voce alta e chiara e con pronunzia adatta alla materia. A questo ufficio era addetto un giovane paggio nativo di Basché nominato Anagnoste. Secondo l’argomento della lettura spesso si dava a riverire adorare, pregare, e supplicare il buon Dio, la maestà e i meravigliosi avvedimenti del quale, la lettura aveva illustrato.

Poi andava al cesso a fare escrezione della digestione naturale. Ivi il precettore ripeteva ciò che era stato letto chiarendogli i punti più oscuri e difficili. Tornando consideravano lo stato del cielo, se era quale l’avevano lasciato la sera precedente, in quali segni dello zodiaco entravano il sole e la luna in quel giorno.

Ciò fatto, mentre lo vestivano, pettinavano, ravviavano, abbigliavano e profumavano, gli ripassavano le lezioni del giorno avanti. Egli stesso le recitava a memoria e vi applicava qualche caso pratico e concernente le umane condizioni. Talora prolungavano questo esercizio per due o tre ore, ma di solito tralasciavano quando era completamente abbigliato. Poi per tre buone ore gli facevano lettura.

Usciti quindi all’aperto sempre conversando degli argomenti trattati dalla lettura, andavano al Bracque o nei prati e giocavano alla pallacorda, al pallone, alla pila trigona, esercitando gagliardamente il corpo come prima avevano esercitato la mente. Giocavano in piena libertà, interrompendo la partita quando piaceva loro e cessavano, di consueto, quand’erano vinti dal sudore o dalla stanchezza. Allora erano ben asciugati e strofinati, si cambiavano di camicia e passeggiando tranquillamente andavano a vedere se il pranzo era pronto e in attesa recitavano chiaramente con eloquenza alcune sentenze ritenute dalla lezione.

Intanto veniva Monsignor l’Appetito e a buon punto si mettevano a tavola. Al principio dei pasti un lettore leggeva qualche piacevole istoria delle antiche prodezze fino a che Pantagruele avesse fatto recare il suo vino. Allora, se pareva opportuno, si continuava la lettura, o cominciavano a conversare allegramente insieme, parlando, nei primi mesi, della virtù, proprietà, efficacia e natura di tutto ciò ch’era servito in tavola: pane, vino, acqua, sale, carni, pesci, frutta, erbe, radici, e del modo di prepararle. Ciò facendo, apprese in poco tempo tutti i passi concernenti quelle materie, di Plinio, Ateneo, Dioscoride, Giulio Polluce, Galeno, Porfirio, Appiano, Polibio, Eliodoro, Aristotele, Eliano e altri. E dopo aver ragionato di questi autori, per controllare i testi facevano portare i loro volumi. In tal modo egli apprese a mente così bene le dette cose, che non c’era medico, allora, che ne sapesse la metà. Dopo conversavano degli argomenti letti nel mattino e finivano il pasto con un po’ di cotognata.

Si curava i denti con un ramo di lentisco, si lavava mani ed occhi con bell’acqua fresca e rendeva grazie a Dio con qualche bel cantico composto in lode della benigna munificenza divina.

Portavano poi delle carte, non per giocare ma per apprendervi mille piccole combinazioni e invenzioni tratte dall’aritmetica. Alla quale tanto s’appassionò che tutti i giorni dopo pranzo e dopo cena si divertiva colla scienza dei numeri quanto prima coi dadi e le carte. E divenne sì profondo nell’aritmetica teorica e in quella pratica, che l’inglese Tunstal il quale aveva trattato diffusamente la materia, confessò d’essere rimasto, di fronte a Gargantua, all’abbicì.

E non solamente imparò l’aritmetica, ma altre scienze matematiche come geometria, astronomia, musica. Poiché, attendendo la concezione e digestione degli alimenti, fabbricavano mille piacevoli strumenti, componevano figure geometriche e parimente applicavano i canoni astronomici. Poi si divertivano a cantare cori di quattro o cinque voci accordate musicalmente, oppure svolgevano un tema così a capriccio di gola.