lo zoppo,

Col salvacondotto de’ graziosi stornelli.

Lo stacciatore, cugino del gran Ciclope,

Li massacrò. Ciascuno si soffi il proprio naso;

In questa terra pochi sodomiti nacquero

Che non siano stati messi alla gogna sul mulino del tannino

Corretevi tutti e sonate l’allarme:

Ci guadagnerete più che non ci guadagnaste mai.

 

Ben poco appresso, l’uccel di Giove

Deliberò scommettere pel peggio;

Ma vedendolo tanto corrucciarsi

Temé che si mettesse sossopra a ferro e a fuoco l’impero

E preferì il fuoco del cielo empireo

Rapire al tronco dove vendonsi le arringhe affumicate,

Piuttosto che l’aria serena contro cui si cospira,

Assoggettare ai detti dei Massoreti.

 

Tutto fu concluso con punta affilata

Malgrado Ate, dalle cosce aironesche,

Che là sedette vedendo Pantesilea

Scambiata nei suoi vecchi anni per venditrice di crescione.

Ciascun gridava; “O brutta carbonara,

Ti s’addice trovarti per la strada;

Tu la prendesti la romana bandiera

Che avevan fatto con orli di pergamena”.

 

Se non era Giunone, che sotto l’arcobaleno

Col suo gufo sulla gruccia badava a richiamar gli uccelli,

Le avrebbero giocato un tiro birbone,

ché sarebbe stata conciata per le feste.

L’accordo fu che di quel boccone

Ella avrebbe avuto due uova di Proserpina;

E se mai ella vi fosse stata presa,

Si legherebbe al monte dell’Albaspina.

 

Sette mesi dopo, meno ventidue

Colui che un giorno annichilì Cartagine

Cortesemente s’interpose tra di loro

Chiedendo la sua eredità;

Oppure che giustamente facessero le parti

Secondo la legge bene ribadita

Distribuendo un tantino di zuppa

Ai suoi facchini che fecero il brevetto.

 

Ma verrà l’anno segnato da un arco turchesco,

Da cinque fusi e tre culi di marmitta,

Nel quale il dorso d’un re poco cortese,

Sarà pepato in abito d’eremita.

Oh qual pietà! Per un’ipocrita

Lascerete inabissarsi tanti campi?

Basta, basta! Questa maschera non imita alcuno:

Ritiratevi dal fratello dei serpenti.

 

Passato quest’anno, colui che è, regnerà

Tranquillamente coi suoi buoni amici.

Né affronti, né oltraggi allora domineranno

Tutto il buon volere avrà il suo compromesso.

E la gioia che fu già promessa

Alle genti del cielo, verrà nella sua torre.

Allora gli stalloni che erano costernati

Trionferanno come palafreni regali.

 

E durerà questo tempo di mistificazione

Finché Marte abbia le catene:

Poi uno ne verrà superiore ad ogni altro,

Delizioso, piacevole, bello senza paragone.

In alto i cuori, accorrete a quel banchetto

Voi tutti, o miei fedeli: poiché tale è morto

Che non tornerebbe per qualsiasi bene

Tanto sarà lodato allora il tempo che fu.

 

Finalmente colui che fu di cera

Sarà alloggiato ai cardini di Jaquemart.

Più non sarà richiamato; “Sire, Sire,”

Lo scampanatore che tiene la pentola.

Ah chi potesse atterrare la sua daga!

Scomparirebbe il rombare dei cappucci;

E si potrebbe con un buon spago

Chiudere tutto il magazzino degli abusi.

 

CAPITOLO III.

 

Come qualmente Gargantua fu portato per undici mesi nel ventre materno.

 

Grangola era un buon burlone al tempo suo e amava bere schietto e mangiar salato quant’altri al mondo. A tal uopo teneva ordinariamente buona munizione di prosciutti di Magonza e di Baiona, moltissime lingue di bue affumicate, abbondanza di biroldi alla loro stagione, bue salato con mostarda; poi rinforzo di bottarga, una provvista di salsicce ma non di Bologna (non si fidava a’ bocconi de’ Lombardi) ma di Bigorra, di Lonquaulnay, de la Brenne e di Rouargue.

Giunto all’età virile sposò Gargamella, figlia del re dei Parpaglioni, bella traccagnotta e di bel mostaccio.

E facevano spesso insieme la bestia a due schiene fregandosi allegramente il loro lardo, sicché ella ne ingravidò d’un bel maschio che portò fino all’undecimo mese.

Tanto infatti, e anche più, può durar la gravidanza delle donne, massimamente quando trattisi di qualche capolavoro, di personaggio che debba compiere nel tempo suo grandi prodezze. Così Omero dice che il fanciullo di che Nettuno ingravidò la ninfa, nacque dopo un anno compiuto, cioè il dodicesimo mese. Questo lungo tempo infatti (come dice Aulo Gellio, lib. III) conveniva alla maestà di Nettuno affinché quel fanciullo fosse formato a perfezione. Allo stesso intento Giove fece durare quarantotto ore la notte che giacque con Alcmena, poiché in meno tempo non avrebbe potuto fucinare Ercole che purgò il mondo da tanti mostri e tiranni.

I signori Pantagruelisti antichi hanno confermato ciò ch’io dico ed hanno dichiarato non solo possibile ma anche legittimo il fanciullo nato dalla vedova l’undicesimo mese dopo la morte del marito.

 

Vedi infatti. Ippocrate, lib. De alimento.

Plinio, Hist. Nat. lib. VII, Cap. V.

Plauto, Cistellaria.

Marco Varrone, nella satira intitolata Il Testamento, allegante l’autorità di Aristotele a questo proposito.

Censorino, lib. De Die natali.

Aristotele, lib. VII, cap. III e IV. De Natura animalium.

Gellio, lib. III, cap. XVI.

Servio, in Egl. esponendo questo verso di Virgilio:

 

Matri longa decem ecc.

 

E mille altri pazzi, il numero dei quali è stato accresciuto dai legisti. Vedi infatti: Digesto; De suis legitimis heredibus, lege intestato, paragrafo finale.

E nelle Authenticae, il par. De restitutionibus et ea quae parit in undecimo mense post mortem viri.

Inoltre ne hanno scombiccherato le loro rodilardiche leggi, Gallo, De liberis et postumis heredibus etc. e nel libro settimo del Digesto; De statu hominum, e qualche altro che non oso nominare.

Grazie alle quali leggi le vedove possono bravamente esercitarsi al gioco di stringichiappe a tutto spiano e senza rischio fino a due mesi dopo la morte del marito. E però vi prego in cortesia, voialtri miei buoni bagascieri, se ne trovate qualcuna che metta conto di sfoderarci l’arnese, saltateci addosso e menatemela qui. Poiché se al terzo mese esse ingravidano, il figlio sarà erede del defunto. E, accertata la gravidanza, forza, coraggio, e avanti, e voga, e dagli, ché, tanto, la pancia è già piena!

Così Giulia, figlia dell’imperatore Ottaviano, non si abbandonava ai suoi stamburatori se non quando si sentiva gravida, a mo’ dei piloti che non montano a bordo se prima la nave non è calafatata e carica.

E se taluno le biasimi di farsi rotainconniculare gravide, laddove le bestie pregne non sopportano maschio maschioperante, esse risponderanno che le bestie son bestie e che esse son donne le quali bene intendono i belli e allegri minuti piaceri della superfetazione come già rispose Populia a quanto ci riferisce Macrobio (lib. II, Saturnali).

E se il diavolo non vuole che impregnino, tagli le cannelle e tappi tutti i buchi.

 

CAPITOLO IV.

 

Come qualmente Gargamella, gravida di Gargantua, fece una spanciata di trippe.

 

L’occasione e il modo come Gargamella partorì fu il seguente, e gli scappi il budello culare a chi non crede! Il budello culare le uscì fuori un dopopranzo, 3 di Febbraio, per aver fatto una scorpacciata di estapingui. Estapingui sono grasse trippe di manzi: manzi sono i buoi ingrassati alla greppia e al pascolo dei prati bisettili; e prati bisettili sono quelli che danno due tagli d’erba all’anno. Di que’ manzi ne avevano fatti macellare trecento settantasettemila e quattordici per metterli in sale il martedì grasso e aver carne ben stagionata a primavera per scialarsela con salati al principio del pasto e preparare degno ingresso al vino.

Le trippe abbondavano, come capite, e tanto appetitose da leccarsene ciascuno le dita. Ma ahimè, ahimè! C’era un gran guaio e cioè che non si potevano conservare a lungo, se no andavano a male e ciò sarebbe stato sconveniente: fu dunque stabilito di papparsele tutte e che nulla andasse perduto.