Egli cedè, secondo il decreto degli stati, le sue terre e il reame, offrendo gli atti di trasmissione e cessione, firmati, sigillati e ratificati in tutta regola: ciò fu totalmente rifiutato e i contratti bruciati. Il risultato fu che mio padre cominciò a commoversi di pietà e a piangere copiosamente considerando il franco volere e la semplicità dei Canariani e con parole squisite e sentenze convenienti cercava menomare l’importanza del buon trattamento usato, dicendo nulla aver fatto che valesse più di un bottone e se aveva mostrato qualche minima gentilezza, l’aveva fatto perché suo dovere. E Alfarbal invece a decantarne il pregio vieppiù. Quale fu il risultato? Imponendogli anche la più gravosa delle taglie avremmo potuto esigere tirannicamente da lui due milioni di scudi e tenere in ostaggio i suoi figli maggiori: invece essi si son fatti spontaneamente tributari perpetui e obbligati a versarci ogni anno due milioni d’oro fino di ventiquattro carati. E il primo anno ce li pagarono qui, il secondo volontariamente ci pagarono due milioni e duecentomila scudi: il terzo due milioni e seicentomila, il quarto tre milioni, e tanto aumentano di loro buon grado la somma che saremo costretti a proibir loro di più nulla portarci. È la natura della gratuità. Che il tempo, il quale corrode e diminuisce ogni cosa, accresce invece il valore dei benefici, poiché una buona azione compiuta liberamente verso un uomo ragionevole è continuamente accresciuta da nobile pensiero e dalla rimembranza.

Non volendo io dunque degenerare dalla bontà ereditata dai parenti miei, ora vi lascio in libertà e vi rendo franchi e liberi come avanti. Inoltre, all’uscire dalle porte sarete pagati ciascuno per tre mesi affinché possiate ritirarvi nelle vostre case e famiglie e vi condurranno in sicurezza seicento cavalieri e ottomila fanti sotto la guida del mio scudiero Alessandro affinché non siate oltraggiati dai contadini. Dio sia con voi!

Duolmi di tutto cuore che qui non sia Picrocolo al quale avrei fatto intendere come a questa guerra fui tratto mio malgrado e senza alcuna intenzione di accrescere né i miei beni, né il mio nome. Ma poiché egli è perduto, né si sa dove né come sia sparito, voglio che il suo reame sia conservato intero a suo figlio, il quale, per essere in tenera età, poiché non ha anco compiuto i cinque anni, sarà allevato ed istruito dai vecchi principi e dai savii del reame. E poiché un reame così desolato, sarebbe facilmente rovinato se non s’infrenasse la cupidigia e avidità dei suoi amministratori, ordino e voglio che Ponocrate sovraintenda a tutti i governanti coll’autorità a ciò richiesta e assista il fanciullo finché lo riconosca idoneo a governare da sé.

Considero che una troppo molle e snervata facilità di perdono è occasione ai malfattori di nuovamente malfare per la perniciosa speranza di grazia. Considero che Mosè, il più dolce uomo che fosse sulla terra al tempo suo, puniva severamente gli insubordinati e i sediziosi del popolo di Israele. Considero Giulio Cesare, capitano mitissimo. Disse di lui Cicerone che la sua fortuna nulla ebbe di più sovrano se non il potere e la sua virtù nulla di migliore se non il voler sempre salvare e perdonare tutti. Cesare tuttavia in certi casi punì rigorosamente gli autori di ribellione.

A esempio di loro voglio che mi consegniate avanti di partire: anzitutto quel bel Marchetto che per la sua vana oltracotanza fu origine e causa prima di questa guerra: in secondo luogo i suoi compagni focacceri che trascurarono di correggere immediatamente la sua testa matta e infine tutti i consiglieri, capitani, ufficiali e famigliari di Picrocolo che lo abbiano incitato, lodato, e consigliato a esorbitare dai limiti per venire a disturbarci.”

 

CAPITOLO LI.

 

Come qualmente i Gargantuisti vincitori furono ricompensati dopo la battaglia.

 

Dopo la concione di Gargantua furono consegnati i sediziosi da lui richiesti meno Spadaccino, Merdaglia, e Minutaglia i quali erano fuggiti sei ore prima della battaglia, l’uno di volata fino a Col d’agnello, l’altro fino a Val de Vire, il terzo fino a Logrono, senza mai voltarsi né prender fiato nella fuga, e meno due focacceri morti nella battaglia. Gargantua non fece loro alcun male, solo ordinò fossero adibiti a tirare le stampe nella tipografia impiantata di fresco.

Poi fece onorevolmente seppellire i morti nella valle delle Noirettes e nel campo di Brulevieille. I feriti li fece medicare e curare nel suo grande nosocomio. Poi pensò ai danni recati alla città e li fece rimborsare agli abitanti con tutti gli interessi basandosi sulla loro dichiarazione giurata.

Nella città fece costruire un forte castello e vi mise gente a guardia per meglio difenderla nell’avvenire contro le aggressioni improvvise.

Prima che partissero ringraziò con riconoscenza tutti i soldati delle sue legioni che avevano cooperato alla vittoria e li mandò a svernare nelle loro sedi e guarnigioni, eccetto alcuni della legione decumana che aveva visto nella giornata campale compiere prodezze, e insieme i capitani delle bande che condusse con sé alla presenza di Grangola.

Non sarebbe possibile descrivere quanto si rallegrò il buon uomo vedendoli arrivare. E diede loro un banchetto, il più magnifico e abbondante e delizioso che si fosse mai visto dal tempo del re Assuero. Al levar delle mense distribuì a ciascuno tutta la sua argenteria che pesava un milione ottocentomila e quattordici bisanti d’oro, tra gran vasi antichi, grandi crateri, navicelle, portafiori, portaconfetti, e altro simile vasellame, tutto d’oro massiccio, oltre le gemme, gli smalti e i lavori di oreficeria, il prezzo dei quali a stima di ognuno, superava quello stesso del metallo.

Inoltre fece loro contare dalle sue casse, un milione e duecentomila scudi ciascuno, e in più, a ciascuno, donò a perpetuità (salvo il caso che morissero senza eredi) i suoi castelli e terre vicini, secondo che erano a loro più comodi: a Ponocrate donò la Roche Clermault, a Ginnasta Coudray; a Eudemone, Montpensier; a Tolmero, Rivau; a Itibolo, Monsoreau; ad Acamas, Cande; a Chiranatto, Varennes; Gravot a Sebaste; Quinquenays ad Alessandro; Ligrè a Sofronio; e così dell’altre sue piazze.

 

CAPITOLO LII.

 

Come qualmente Gargantua fece costruire per il monaco l’abbazia di Teleme.

 

Restava da premiare il monaco. Gargantua voleva nominarlo abate di Seuilly, ma egli rifiutò. Gli volle dare l’abbazia di Bourgueil o quella di Saint-Florent, qual delle due più gli convenisse, o entrambe se gli piacesse; ma il monaco gli fece risposta perentoria che non voleva carico né governo di monaci.

- Poiché, diceva, come potrei governare altrui, io che non saprei governare me stesso? Se vi pare che vi abbia reso servizio gradito e che possa renderne altri in avvenire, concedetemi di fondare una abbazia di mia testa.

Piacque la domanda a Gargantua e gli offrì tutto il suo territorio di Teleme lungo la Loira, a due leghe dalla grande foresta di Port-Huan. Il monaco chiese poi a Gargantua che disciplinasse la sua regola in modo contrario a tutte le altre.

- Anzitutto, disse Gargantua, non bisognerà costruirvi muri all’intorno, poiché tutte le altre abbazie sono fieramente murate.

- Non senza ragione è questo, disse il monaco: dove c’è muro e davanti e di dietro, c’è molto murmurare, e invidia e mutua cospirazione.

Inoltre, poiché in certi conventi di questo mondo è usanza che se v’entra qualche donna (intendo le oneste e pudiche) si ripuliscono i luoghi dove son passate, così ordino che se un monaco o una monaca entrassero per caso nell’abbazia, si ripulissero accuratamente tutti i luoghi per dove fossero passati. E poiché negli ordini monastici di questo mondo tutto è misurato, limitato e regolato per ore, fu decretato che colà non fosse né orologio, né quadrante alcuno, ma che tutte le opere fossero distribuite secondo le occasioni e opportunità; poiché, diceva Gargantua, la maggior perdita di tempo che egli sapesse, era contar le ore (qual profitto ne viene?) e la più gran corbelleria di questo mondo governarsi al suon di una campana e non secondo i dettami del buon senso e dell’intelletto. Item, poiché in quel tempo non si facevano monache se non le donne che erano guercie, gobbe, brutte, deformi, folli, insensate, stregate, e magagnate e monaci gli uomini se non catarrosi, malnati, sciocchi, e di peso alla famiglia….

- A proposito, disse il monaco, una donna né bella né buona, a che serve?

- A metterla in convento, disse Gargantua.

- Ma anche, disse il monaco, a far camicie.

….così fu ordinato che là non sarebbero state ricevute se non donne belle, ben formate, e di buona natura e gli uomini belli, ben formati e di buona natura.

Item, poiché nei conventi di monache non entravano uomini se non di scappata e clandestinamente, fu decretato che colà non sarebbero ammesse donne se non vi fossero uomini, né uomini se non vi fossero donne.

Item, poiché tanto i monaci che le monache una volta entrati in un ordine, dopo l’anno di noviziato, erano forzati e costretti a restarvi perpetuamente per tutta la vita, fu stabilito che uomini e donne entrati colà avessero potuto uscirne francamente e completamente quando loro piacesse.

Item, poiché ordinariamente i monaci facevano tre voti: di castità, povertà e obbedienza, fu stabilito che colà si potessero maritare onorevolmente, che ciascuno fosse ricco e vivesse liberamente.

Quanto all’età legittima, le donne vi erano ammesse dai dieci fino ai quindici anni, gli uomini dai dodici fino ai diciotto.

 

CAPITOLO LIII.

 

Come qualmente fu costruita e dotata l’abbazia dei Telemiti.

 

Per la costruzione e l’ammobiliamento dell’abbazia, Gargantua fece consegnare in contanti due milioni e settecento mila ottocento e trentuno montoni di gran lana e assegnò per ogni anno, fino a compimento dell’opera, un milione seicento e sessantanovemila scudi del sole e altrettanti della chioccia, da esigere sulle entrate della Dive.

Per l’impianto e il mantenimento dell’abbazia fece donazione a perpetuità di due milioni trecento sessantanove mila cinquecento e quattordici nobili della rosa, netti da aggravi, liberi, e pagabili ogni anno alla porta dell’abbazia e ciò fu messo in atti e firmato in piena regola.

L’edificio fu costruito in forma esagonale; ai sei angoli corrisposero sei torrioni rotondi di sessanta passi di diametro e tutti eguali di grandezza e di aspetto.

La Loira scorreva sulla facciata di settentrione e là sorgeva una delle grosse torri chiamata Artica, l’altra volgendo a oriente era chiamata Calaer, l’altra Anatolia, l’altra Mesembrina, l’altra Esperia, e l’ultima Criera.

I lati fra torre e torre misuravano trecento e dodici passi. Tutto l’edificio era a sei piani contando per un piano le cantine sotterranee. Il secondo piano era tutto a volti in forma d’ansa di paniere; tutti gli altri soffitti erano a cassettoni e a cul di lampada in gesso di Fiandra; il tetto coperto d’ardesia fina, con il comignolo rivestito di piombo con figure d’ometti e animali ben eseguiti, combinati e dorati, coi doccioni che sporgevano dalla muraglia tra un finestrone e l’altro e i tubi, dipinti con disegni diagonali d’oro e d’azzurro, che scendevano sino a terra dove finivano in grandi canali sotterranei che mettevano nel fiume.

L’edificio era cento volte più magnifico dei castelli di Bonivet, di Chambord e di Chantilly, poiché conteneva novemila trecento e trentadue camere, ciascuna fornita d’anticamera, gabinetto, guardaroba, cappella, e con uscita in una grande sala. Nell’interno di ciascuna torre era una scala a chiocciola con pianerottoli, i gradini della quale erano o di porfirio, o di marmo rosso di Numidia, o di marmo serpentino, lunghi ventidue piedi; la loro grossezza era di tre dita ed ogni ramo di scala ne aveva dodici tra un pianerottolo e l’altro. Ogni pianerottolo era illuminato di due belle finestre arcate all’antica, ed essi mettevano sopra una loggetta della larghezza della scala. La scala saliva fino al tetto e là finiva a padiglione e da ogni lato di essa si entrava in una grande sala e dalle sale nelle camere.

Dalla torre Artica alla Criera erano belle e grandi biblioteche di libri greci, latini, ebraici, francesi, toscani e spagnoli, una lingua per ogni piano.

Nel mezzo dell’edificio, dalla parte del fiume era una scalea a chiocciola, mirabile, l’entrata della quale era esterna sotto un’arcata larga sei tese ed era costruita in tale forma e dimensione che sei cavalieri colla lancia sulla coscia potevano salire insieme, di fronte, fino al sommo dell’edificio.

Dalla torre Anatolia alla Mesembrina erano belle e grandi gallerie tutte affrescate di antiche geste, di fatti storici e descrizioni della terra.