Tra le due torri era un’altra scalea come quella sopradetta dalla parte del fiume. Sulla porta era scritto in lettere romane ciò che segue.

 

CAPITOLO LIV.

 

Iscrizione messa sul portale di Teleme.

 

Qui non entrate voi, ipocriti, bigotti,

Vecchie bertucce, sguatteri gonfioni,

Torcicolli, sciocchi da disgradarne i Goti

E gli Ostrogoti, precursori dei macacchi;

Accattoni, lebbrosi, mangiamoccoli impantofolati,

Straccioni imbacuccati, porcaccioni scornacchiati,

Beffati, tumefatti, accattabrighe;

Tirate via a vendere altrove i vostri imbrogli.

 

I vostri mali imbrogli

Invaderebbero i miei campi

Di cattiveria;

E per loro falsità

Turberebbero i miei canti

I vostri mali imbrogli.

 

Qui non entrate voi o legulei mangiafieno,

Scribacchini, curiali, divoratori di popolo,

Coadiutori, scribi e farisei,

Giudici antichi che ai buoni parrocchiani

Siccome a cani mettete il guinzaglio.

Sia vostra mercede il patibolo.

Andate là a ragliare; qui non si commette eccessi,

Onde alle vostre corti movansi processi.

 

Processi e dispute

Han poco da stare allegri qui,

Dove si viene a spassarsela.

Su voi per litigare

Si rovescino a cestoni

Processi e discussioni.

 

Qui non entrate voi, usurai spilorci,

Ghiottoni leccapiatti, che sempre ammassate,

Acchiappagatti, ingoiatori di nebbia,

Curvi, camusi, che nelle vostre pentole

Non avete mai abbastanza migliaia di marchi.

Non fate smorfie quando incassate

E accumulate, poltroni dall’avara faccia;

Che mala morte d’un colpo vi disfaccia.

 

La faccia non umana

Di tal gente si porti

A ridere altrove; qui dentro

Non sarebbe decente;

Via da questo territorio

Facce non umane.

 

Qui non entrate voi, o deliranti mastini

Né a sera né a mattino, vecchi malinconici e gelosi,

Né voi faziosi e rivoltosi,

Fantasmi, folletti, spioni dei mariti,

Greci e Latini più pericolosi dei lupi;

Né voi rognosi impestati fino all’osso;

Andate altrove a far mostra d’ulceri,

Infranciosati carichi di disonore.

 

Onore, lode, letizia

Son qui dentro convenuti

In accordo giocondo;

Tutti son qui sani di corpo.

Perciò ben qui s’addice

Onore, lode, letizia.

 

Qui entrate e siate i benvenuti

E benarrivati voi tutti, nobili cavalieri

Questo è il luogo ove son copiose

E giuste rendite, affinché ospitati

Siate tutti, grandi e piccoli a migliaia.

Miei familiari, miei intimi sarete

O freschi, giocondi, allegri, piacevoli, graziosi;

E tutti in generale gentili compagnoni.

 

Compagnoni gentili

Sereni e sottili

Alieni da bassezza,

Di cortesia

Qui sono gli strumenti,

O compagnoni gentili.

 

Qui entrate voi che l’evangelio santo

Vivacemente propagate, checché si gridi.

Qui dentro avete rifugio e fortezza

Contro l’errore dei nemici, che tanto procura

Avvelenare il mondo con sua falsità:

Entrate, e qui si fondi la profonda fede;

Poi si confondano e a voce e per iscritto

I nemici della santa parola.

 

La parola santa

Non sia mai estinta

In questo luogo santissimo.

Ciascun ne sia cinto

Ciascuno incinto sia

Dalla parola santa.

 

Qui entrate voi, dame d’alta stirpe,

Con franco cuore e lietamente entrate,

Fiori di bellezza dal viso celeste,

Dal corpo snello, dal fare onesto e saggio.

In questo luogo ha sede l’onore.

L’alto signore donatore del luogo

E compensatore, per voi l’ha ordinato

E per ogni spesa ha molto or donato.

 

Or donato per dono

Ordina perdono

A chi lo dona:

E ben guiderdona

Ogni mortal galantuomo

Or donato per dono.

 

CAPITOLO LV.

 

Come qualmente era il maniero dei Telemiti.

 

In mezzo al cortile era una fontana magnifica di bello alabastro, sopravi le tre Grazie colle cornucopie e zampillanti getti d’acqua dalle mammelle, dalla bocca, dalle orecchie, dagli occhi e da altre aperture del corpo.

L’interno dell’edificio sul detto cortile era tutto a portici con grossi pilastri di calcedonio e porfirio e a belle arcate romaniche. Là erano belle e lunghe e ampie gallerie adorne di affreschi e trofei di corna di cervo, di liocorni, di rinoceronti, di ippopotami, di denti d’elefante e altre curiosità.

La parte dalla torre Artica alla Mesembrina era adibita alle dame. Gli uomini occupavano il resto. Davanti agli appartamenti delle dame, perché avessero una distrazione, tra le due prime torri, esternamente, erano le lizze, l’ippodromo, il teatro, le vasche natatorie con bagni mirifici a tre gradini, ben forniti di ogni comodo e acqua di mirto a volontà.

Prospicente il fiume era il bel giardino e in mezzo ad esso il bel labirinto. Fra le altre due torri erano il gioco della pallacorda e del pallone. Dal lato della torre Criera era il verziere pieno di ogni specie d’alberi fruttiferi tutti ordinati a quinconce. In fondo ad esso era il gran parco pullulante d’ogni genere di selvaggina.

Tra le terze torri erano i bersagli pei tiri d’archibugio, d’arco e di balestra; i servizi erano esternamente alla torre Esperia, a un solo piano; la scuderia, dopo i servizi, la falconeria dopo la scuderia, ed era governata da falconieri ben esperti dell’arte e rifornita ogni anno da Candioti, Veneziani e Sarmati, de’ migliori campioni di ogni specie d’uccelli: aquile, girifalchi, avoltoi, sacri, lanieri, falconi, sparvieri smerigli, tanto bene addestrati e addomesticati che spiccando il volo dal castello per divertirsi ai campi prendevano tutto ciò che incontravano. I canili erano un po’ più lontano volgendo verso il parco.

Tutte le sale, camere e gabinetti erano tappezzati in diverse maniere secondo le stagioni dell’anno. Tutto il pavimento era coperto di un tappeto verde. I letti erano tutti un ricamo. In ogni retrocamera era uno specchio di cristallo, incorniciato d’oro fino, guernito intorno di perle e di tal grandezza da specchiare nitidamente tutta la persona. All’uscita delle sale degli appartamenti femminili erano i profumieri e i parrucchieri per le mani dei quali passavano gli uomini quando andavano a visitare le dame. I profumatori fornivano ogni mattina le camere femminili d’acqua di rosa, acqua di arancio e acqua d’angelo, e mettevano in ciascuna la preziosa cassoletta vaporante ogni sorta di aromi.

 

CAPITOLO LVI.

 

Come qualmente erano vestiti i monaci e le monache di Teleme.

 

Le dame sul principio dell’istituzione si vestivano a loro piacere e arbitrio. Poi di lor franca volontà adottarono la seguente riforma:

Portavano calze scarlatte o color granata alle tre dita giuste sopra il ginocchio; l’orlatura delle quali era ricamata e dentellata. Le giarrettiere erano del colore dei loro braccialetti e contornavano il ginocchio sopra e sotto. Gli stivaletti, scarpine e pantofole erano di velluto cremisi, rosso, o violetto, con striscioline a barba di gambero.

Sulla camicia vestivano la bella baschina di qualche bel tessuto di seta e sopra essa la crinolina di taffetà bianco, rosso, lionato, grigio ecc. Al di sopra mettevano la cotta di taffetà d’argento (con ricami d’oro fino eseguiti coll’ago) o come loro piacesse e secondo le disposizioni dell’aria, di satin, di damasco, o velluto, di color aranciato, lionato, verde, cenerino, blu, giallo chiaro, rosso cremisi, bianco, dorato, tela d’argento, di canutiglia, di pizzi, secondo le feste.

Le sottane secondo la stagione, di tela d’oro a fregi e ricci d’argento, di raso rosso coperto di canutiglia d’oro, di taffetà bianco, blu, nero, lionato, sargia di seta, cambellotto di seta, velluto, stoffa d’argento, tela d’argento, fili d’oro, velluto o raso filato d’oro a disegni diversi. D’estate, qualche giorno, invece di sottana portavano belle tuniche delle stoffe suddette, o bernie alla moresca di velluto violetto con fregi d’oro su canutiglia d’argento, o a cordoncini d’oro guerniti ai nodi di piccole perle indiane. E sempre il bel pennacchio accordato col colore dei manicotti e ben guernito di farfalline d’oro. D’inverno vesti di taffetà dei colori sopra indicati e foderate di pelli di lupo cerviero, di gatto selvatico nero, di martore di Calabria, di zibellini e altre pelliccie preziose.

I rosari, anelli, catenelle e collane erano di gemme: carbonchi, rubini, balasci, diamanti, zaffiri, smeraldi, turchesi, granate, agate, berilli, perle e unioni rarissime.

L’acconciatura della testa variava secondo la stagione: d’inverno alla moda francese, di primavera alla spagnola, d’estate alla toscana; i giorni di festa e le domeniche portavano l’acconciatura francese, più onorevole e consentanea alla pudicizia matronale.

Gli uomini erano abbigliati alla moda loro: calze di stamigna, o di saia tessuta, di color scarlatto, o granata, o bianco, o nero; le brache di velluto del color delle calze, o pressapoco, ricamate e frangiate a loro gusto: il giustacuore di tessuto d’oro, d’argento, di velluto, raso, damasco, taffetà degli stessi colori, frangiato, ricamato e acconciato a meraviglia. I cordoncini erano di seta dello stesso colore, i puntali d’oro e bello smalto; i sai e le zimarre di tessuto d’oro, tela d’oro, tessuto d’argento, velluto, frangiati a piacere; le tuniche non meno preziose di quelle delle dame, le cinture di seta del color del giustacuore. Ciascuno aveva una bella spada al fianco, l’impugnatura dorata, il fodero di velluto del color delle brache con punta d’oro lavorato; lo stesso dicasi del pugnale; il berretto di velluto nero guernito di molte bacche e bottoni d’oro; sopra era la piuma bianca, graziosamente ornata di pagliuzze d’oro, all’estremità delle quali splendevano, a mò di pendagli bei rubini, smeraldi ecc.

Ma tanta simpatia era tra gli uomini e le dame che ogni giorno erano vestiti in modo simile e per non mancare a ciò certi gentiluomini erano incaricati di indicare agli uomini ogni mattina quali vesti le dame desideravano indossare per quella giornata e tutto era fatto secondo il piacere delle dame.

Non è a credere tuttavia che gli uni e le altre perdessero tempo a quei vestiti così belli, a quelle acconciature tanto ricche, poiché i mastri delle guardarobe tenevano ogni costume preparato ogni mattina, e le cameriere erano tanto esperte, che in un momento erano pronti e abbigliati da capo a piedi.

E per aver sottomano quei costumi intorno al bosco di Teleme v’era un gran caseggiato lungo mezza lega, ben chiaro e comodo nel quale dimoravano orefici, lapidari, ricamatori, sarti, filatori d’oro, vellutai, tappezzieri e ciascuno vi attendeva al suo mestiere, tutti per i monaci e le monache. Essi erano riforniti di materia prima e di stoffa per cura del signor Nausicleto, il quale inviava loro ogni anno dalle isole Perlas e dei Cannibali sette navi cariche di verghe d’oro, di seta cruda, di perle e di gemme. Se qualche grossa perla tendendo a vetustà perdeva la nativa nitidezza, glie la rinnovavano dandola a inghiottire a qualche bel gallo come si dà la piumata ai falconi.

 

CAPlTOLO LVII.

 

La regola dei Telemiti e loro maniera di vivere.

 

La loro vita non era governata da leggi, statuti o regole, ma secondo il loro volere e franco arbitrio. Si levavano da letto quando loro piacesse; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano quando ne aveano voglia; nessuno li svegliava, nessuno li forzava né a bere, né a mangiare, né a qualsiasi altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua. La loro regola era tutta in un articolo:

 

Fa ciò che vorrai

 

Poiché gli uomini liberi, ben nati, bene educati, avvezzi a compagnie oneste hanno per natura un istinto e stimolo che chiamano onore, il quale sempre li spinge a opere virtuose e li allontana dal vizio. Coloro i quali con vile soggezione e costrizione sono oppressi ed asserviti volgono a scuotere e a infrangere il giogo di schiavitù i nobili sentimenti onde a virtù liberamente tendevano; poiché noi incliniamo sempre alle cose proibite e bramiamo ciò che ci è negato.

Grazie a quella libertà invece, erano presi da emulazione di fare tutti ciò che ad uno vedevano piacere. Se alcuno o alcuna diceva: beviamo! tutti bevevano.