Innocens credit omni verbo etc. dice Salomone (Proverbiorum XIV)

“Charitas omnia credit” dice san Paolo (Prima Corinthior. XIII) Ma perché, scusate, non vorreste crederlo? Perché, dite voi, non c’è nessuna verosimiglianza? Ma appunto per questa sola ed unica ragione dovete crederlo con fede perfetta. Dicono i sorbonisti che non altro è fede se non argomento delle cose non apparenti.

È contrario alla legge, alla fede, alla ragione, alla Santa Scrittura? Nella Santa Bibbia nulla trovo scritto in contrario. Se quello era il volere di Dio, chi oserebbe dire che non l’avrebbe potuto? Orsù fatemi la grazia di non imbaricuccolarvi mai il cervello con sì futili dubbi. A Dio nulla è impossibile, vi dico. E s’egli volesse, le donne d’ora innanzi si sgraverebbero tutte così, per l’orecchio.

Bacco non fu forse generato dalla coscia di Giove?

E Roccatagliata non nacque forse dal tallone della madre?

E Mangiamosche, dalla pantofola della nutrice?

E Minerva non nacque dal cervello per l’orecchio di Giove?

E Adone non uscì dalla scorza d’un albero di mirra?

Castore e Polluce non sbucarono dal guscio d’un ovo fatto e covato da Leda?

Oh, voi sareste ben più stupiti e trasecolati se vi esponessi ora tutto il capitolo di Plinio in cui si parla dei parti strani e contro natura. No, io non ho certo la faccia tosta di mentire come lui. Leggete, leggete il libro settimo della sua Storia Naturale, capitolo III e non rompetemi più le scatole…

 

CAPITOLO VII.

 

Come qualmente fu messo il nome a Gargantua e come egli tracannava il vino.

 

Il buon Grangola stava bevendo e spassandosi cogli altri quando intese il tremendo grido del figlio che veniva alla luce di questo mondo urlando: bere, bere, bere! E allora disse: “Que grand tu as!” (sottinteso la gola). Ciò udendo i presenti dissero che gli si dovesse metter nome Gargantua perché questa era stata la prima frase del padre alla nascita, secondo l’esempio degli antichi ebrei. Consentì il padre e ne fu contentissima la madre. Per acquetarlo gli diedero bere a iosa e portatolo al fonte fu battezzato al costume dei buoni cristiani.

Per allattarlo convenientemente furono ordinate diciassettemila novecento e tredici vacche di Paurtille e di Brehemond; poiché non era possibile trovare in tutto il paese nutrice adeguata alla grande quantità di latte necessario ad alimentarlo. Alcuni dottori hanno affermato che l’allattò la madre, la quale poteva trarre dalle mammelle millequattrocento e due mastelli più nove boccali di latte ogni volta. Non è verosimile. E tale proposizione è stata dichiarata mammellensamente scandalosa dalla Sorbona, offensiva delle pie orecchie, come quella che puzza d’eresia lontano un miglio.

All’età d’un anno e due mesi, per consiglio de’ medici cominciarono a farlo uscire in un carrozzino tirato da buoi, inventato da Gian Denyau. Lo portavano a spasso qua e là nel suo carrozzino lietamente, ed era un piacere vederlo, ché aveva un bel faccione con quasi diciotto pappagorgie e strillava ben di rado, ma si smerdava ogni momento, ché straordinariamente dolcetto era di tafanario, e per sua natural complessione, e per la disposizione accidentale causata dal soverchio ingollare di pappa settembrina. E non c’era goccia che ne ingollasse senza la sua ragione. Poiché se avveniva che fosse dispettoso, corrucciato, in collera, o triste; se sgambettava, o piangeva, o strillava, con una buona bevuta si rimetteva in sesto, tornava subito tranquillo e allegro.

Una delle governanti, m’ha assicurato e giurato sulla sua potta che egli c’era così avvezzo, che al solo tintinnio dei boccali e delle bottiglie, andava in estasi come se gustasse le gioie del paradiso. Onde esse, considerando quella sua divina facoltà, per rallegrarlo il mattino facevano tintinnire davanti a lui i bicchieri con un coltello, o le bottiglie coi tappi, o i boccali col coperchio: a quel tintinnio diventava festoso e sussultava e si cullava da sé, dondolando la testa, strimpellando il monocordo e baritonando di culo.

 

CAPITOLO VIII.

 

Come qualmente vestirono Gargantua.

 

Giunto a quell’età il padre ordinò gli facessero vestiti dei suoi colori, cioè bianco e azzurro. Vi misero mano e furono fatti, tagliati e cuciti alla moda del tempo.

Dagli antichi registri trovati nella Corte dei conti a Monsoreau si rileva che fu vestito come segue: per la camicia furono adoperate novecento aune di tela di Chasteleraud e duecento pei rinforzi quadrati da mettere sotto le ascelle. La camicia non era pieghettata, poiché la pieghettatura è stata inventata in epoca posteriore, quando le cucitrici, rompendosi la punta dell’ago, cominciarono a lavorar col culo.

Per il farsetto furono adoperate ottocento tredici aune di raso bianco e per le stringhe millecinquecento e nove pelli e mezza di cane.

Data da quel tempo la moda di attaccare le brache al farsetto invece del farsetto alle brache, come prima s’usava, uso questo contro natura come ampiamente ha dimostrato l’Ockam negli Esponibili di Messer Altabraca.

Per le brache occorsero mille cento e cinque aune e un terzo di stamigna bianca. E furono intagliate a fessure in forma di colonne striate e scannellate sul di dietro per non riscaldare i rognoni. I ritagli di damasco azzurro sfioccavano al di dentro quanto conveniva. E notate che aveva bellissime gambe e ben proporzionate alla statura.

Furono tagliate sedici aune e un quarto della stessa stoffa per la braghetta, la quale ebbe forma d’arco superbamente agganciato per due fibbie d’oro a due ganci smaltati su ciascuno dei quali era incastonato un grande smeraldo, della grossezza d’un’arancia. Lo smeraldo, infatti come dice Orfeo, (libro de Lapidibus) e Plinio (libro ultimo) possiede virtù erettiva e confortativa del membro. La braghetta sporgeva in avanti la lunghezza d’un canna ed era a spaccature come le brache, con il damasco azzurro svolazzante del pari. Ma, nel vedere i bei ricami di canutiglia e i graziosi intrecci d’oro, guarniti di fini diamanti, fini rubini, fini turchesi, fini smeraldi e grosse perle persiane, l’avreste comparata alle belle cornucopie rappresentate nei monumenti antichi, o a quella che Rea donò alle due ninfe Adrastea e Ida nutrici di Giove; sempre gagliarda, succulenta, trasudante, sempre verdeggiante, fiorente, fruttificante, riboccante d’umori, di fiori, di frutti, ricolma di tutte delizie. Giuro a Dio ch’era una gioia mirarla! Ma ben più vi dirò de’ suoi meriti nel libro che ho scritto Sulla dignità delle braghette. Solo di questo mi preme avvertirvi, che se era ben lunga e ampia, era pure ben guarnita dentro e ben provveduta, in nulla rassomigliando alle ipocrite braghette d’un branco di bellimbusti, non gonfie d’altro che di vento, con grave pregiudizio del sesso femminile.

Per le sue scarpe furono messe in opera quattrocento e sei aune di velluto azzurro sgargiante. E furono tagliate a graziose strisce e spaccature parallele congiunte con cilindri uniformi.