Per due o tre giorni si ristorarono facendo baldoria con tutto il seguito. Ma s’informarono intanto delle persone più sapienti ch’erano allora nella città e anche se c’era buon vino.

 

CAPITOLO XVII.

 

Come qualmente Gargantua pagò il suo benvenuto ai Parigini e come portò via i campanoni della chiesa di Notre-Dame.

 

Qualche giorno dopo essersi ristorati, mentre Gargantua andava in giro a visitare la città, tutta la gente restava a bocca aperta ad ammirarlo.

Il popolo di Parigi infatti è tanto balordo e scemo di sua natura che un ciarlatano, un monaco questuante, un mulo co’ suoi sonagli, uno strimpellatore di viola a un quadrivio, chiaman più gente che un predicatore del Vangelo. Tanto molestamente dunque gli tenevan dietro che fu costretto a riposarsi sulle torri della chiesa di Notre-Dame.

E là seduto, vedendo tanta gente intorno a sé disse chiaramente: “Mi pare che questi bricconi vogliano che io paghi loro il benvenuto e la buona entrata. È giusto. Ora gli offro subito la bicchierata: ma sarà un vino par ris. E, tutto sorridente, spalancò la sua bella braghetta e spianando il bischero in aria li scompisciò sì aspramente e copiosamente che ne annegò duecentosessantamila quattrocento e diciotto, senza contare le donne e i fanciulli.

Un certo numero poté scampare a quella pisciaforte grazie alla leggerezza dei piedi. E pervenuti sull’altura dov’è l’Università, sudando, tossendo, sputando e ansimando, cominciarono a sacramentare e bestemmiare: “Per le piaghe di Dio! Rinnego Dio! Sangue di Diana, sta un po’ a vedere!… Per la Merdiana! Per la testa di Dio! Das dich Gots leyden schend! Potta di Cristo! Ventre di San Quenet! Virtù di Dio! Per San Fiacre di Brie! Per San Ringano! Fò voto a San Teobaldo! Pasqua di Dio! Buondì di Dio! Che il diavolo mi porti! Fede di gentiluomo! Per Santa Salciccia! Per San Godegrande martirizzato a suon di mele cotte! Per San Fottino apostolo! Per San Vito! Per Santa Mamica! siamo inondati par ris! ”

Da quel giorno la città fu chiamata Paris, mentre, prima si chiamava, come dice Strabone (lib. IV) Leucezia, cioè in greco: bianchetta, a cagione delle coscie delle dame di Parigi, che sono bianche.

E poiché inoltre, al momento dell’imposizione del nuovo nome ciascuno dei presenti bestemmiò invocando il santo della sua parrocchia, a Parigi, (specie di porto di mare dove c’è gente d’ogni razza) gli uomini son per natura forti giocatori forti giuristi e un tantino arroganti; onde Giovannino de Barranco a giusto titolo nel libro De copiositate reverentiarum stima che son detti Parrhesiens, cioè, in greco, valenti parlatori.

Gargantua, dopo la pisciata, considerando i campanoni delle torri, li fece suonare armoniosissimamente e ciò facendo gli venne in mente che ben potevano servir da sonagli sul collo della sua giumenta che voleva rimandare al padre carica di formaggi della Brie e d’aringhe fresche. E infatti se li portò a casa.

Intanto passò un pescaprosciutti, commendatore di Sant’Antonio per la sua questua suina, il quale avrebbe voluto portarseli via furtivamente perché il suono lo annunciasse da lungi e facesse tremare di paura i lardi in sale, ma poi, per sentimento d’onestà li lasciò stare; non è che scottassero, gli è che erano un tantinello pesantucci a portare. Badate che non era l’antonista di Bourg; quello è un mio carissimo amico.

Tutta la città fu in subbuglio. Alle sommosse, come sapete, sono tanto inclini, che i forestieri stupiscono della pazienza dei re di Francia i quali non li frenano, come giustizia vorrebbe, dati gli inconvenienti che sorgono ogni giorno. Ah volesse Dio che io conoscessi l’officina dove si fabbricano tanti scismi e macchinazioni, ben io vorrei denunciarla alla confraternita della mia parrocchia!

Il popolo dunque, tutto fuor di sé e balordo s’adunò alla Sorbona, dov’era allora e ora non è più, l’oracolo di Leucezia.

Colà fu esposto il caso e fu dimostrato il danno dei campanoni asportati.

Dopo aver ben sofisticato pro et contra, fu deliberato a mò di baratipton, doversi inviare a Gargantua i più anziani e competenti della facoltà di teologia, per dimostrargli quale orribile inconveniente fosse la perdita delle campane. E nonostante l’obiezione d’alcuni dell’Università che l’incarico meglio s’addiceva a un oratore che a un teologo, l’affare fu affidato al nostro Mastro Giannotto de Bragmardo.

 

CAPITOLO XVIII.

 

Come qualmente Giannotto De Bragmardo fu inviato a Gargantua per recuperare i campanoni.

 

Mastro Giannotto, tonduto alle cesarina e indossato il suo bravo tiripipion teologale, bene antidotato lo stomaco di cotognate al forno e d’acqua benedetta… di cantina, si recò all’abitazione di Gargantua parando avanti a sé vitelli dal muso rosa e traendo dietro cinque o sei maestri inerti unti e bisunti a gloria dell’economia. Li incontrò sull’entrata Ponocrate e spaventato in vederli così agghindati, pensava fossero maschere impazzite fuor di stagione. Poi chiese ad uno dei maestri inerti della carovana che cosa cercasse quella mascherata. Gli fu risposto che domandavano la restituzione delle campane.

Ponocrate corse subito a informarne Gargantua per poter dare sollecita risposta e deliberare prontamente sul da farsi. Gargantua, avvertito, chiamò in disparte Ponocrate suo precettore, Filotimo suo maggiordomo, Ginnasta suo scudiero ed Eudemone e li consultò brevemente su ciò che doveva fare e rispondere. Tutti furono d’avviso d’introdurre gl’inviati nel salotto di bevimento e lì che bevessero teologalmente; e intanto perché il catarroso Giannotto non si gloriasse d’aver ottenuto colla sua richiesta la restituzione delle campane, mentre egli beveva, si mandassero a chiamare il Prevosto della città, il Rettore della facoltà e il Vicario della chiesa, ai quali avrebbe consegnato le campane prima che il teologo esponesse il suo mandato. Dopo la consegna, presenti anche i sopravvenuti, avrebbero dato udienza all’arringa teologale. Così fu fatto. I chiamati arrivarono e il teologo, condotto nel bel mezzo della sala, cominciò, non senza tossire, come segue.

 

CAPITOLO XIX.

 

L’arringa di Mastro Giannotto De Bragmardo a Gargantua per recuperare le campane.

 

“Ehen, hen, hen,! Mna, dies signore, Mna dies! Et vobis, signore! Sarebbe un gran bel fatto che ci rendeste le nostre campane, poiché ne abbiamo molto bisogno. Hen, hen, hasc,! Ne abbiamo rifiutato una volta del bravo danaro sonante dai cittadini di Londra, in Cahors, e altresì da quelli di Bordeaux, nella Brie, i quali volevano comprarle per la sostantifica qualità della complessione elementare che è intronificata nella terrestrità della loro natura quidditativa, per estraniare gli aloni e i turbini dalle nostre vigne, veramente non nostre, ma poco ci manca. Poiché se perdiamo il sugo di vigna, tutto perdiamo; sentimento e legge.

“Se voi ce le restituite per mia richiesta io ci guadagnerò dieci spanne di salciccia e un buon paio di brache che saranno una grazia di Dio per le mie gambe, se no, non mi terranno la promessa. Oh, per Dio, Domine, un paio di brache non è mica un pugno in un occhio, et vir sapiens non abhorrebit eam. Ah, ah, non è mica dato a tutti avere un paio di brache. Io lo so bene per esperienza personale, pensate, Domine: son diciotto giomi che sto a rugumare questa bella arringa: Reddite quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo. Ibi iacet lepus. Date a Cesare quel ch’è di Cesare e date a Dio quel ch’è di Dio. Questo è l’importante.

“In fede mia, Domine se volete cenare con me in camera corpo di Dio, charitatis, nos facemus bonum cherubin. Ego occidi porcum et ego habet bon vino.