E allora salito in groppa lo spinse a corsa nella direzione del sole, sicché l’ombra si proiettasse dietro e in questo modo rese il cavallo docile al suo volere. Da ciò riconobbe il padre la divina intelligenza del figlio e lo fece egregiamente istruire da Aristotele il più stimato allora fra tutti i filosofi greci. Ebbene, io vi dico che solo dall’argomento trattato ora davanti a voi con Gargantua, ho compreso che qualcosa di divino è nel suo intelletto, tanto m’appare acuto, sottile, profondo e sereno. Bene istruito salirà a grado sovrano di sapienza. Voglio pertanto affidarlo a qualche gran dotto che lo ammaestri secondo le sue facoltà; e nulla sia risparmiato.

Gli consigliarono infatti un gran dottore in teologia chiamato Maestro Thubal Oloferne, il quale gl’insegnò così bene l’alfabeto che lo recitava a memoria anche a rovescio.

Questo insegnamento richiese cinque anni e tre mesi. Poi gli lesse il Donato, il Faceto, il Teodoleto e Alano in Parabolis. Questo insegnamento richiese tredici anni, sei mesi e due settimane.

Ma notate che intanto gl’insegnava a scrivere in caratteri gotici e così gli faceva copiare tutti i suoi libri, poiché l’arte della stampa non usava ancora.

Portava dunque seco un grosso scrittoio pesante più di settemila quintali, l’astuccio del quale eguagliava in altezza e grossezza i pilastroni della chiesa di Ainay; il calamaio, appesovi con grosse catene di ferro, poteva contenere una botte d’inchiostro.

Poi gli lesse il De modis significandi coi commenti di Urtaborea, Facchino, Cenetroppi, Galeotto, Gianvitello, Billonio, Leccasterco e d’un branco d’altri. Questo insegnamento richiese più di diciotto anni e undici mesi. E l’imparò così bene che, messo alla prova, lo rivomitava alla rovescia e dimostrava sulla punta delle dita alla madre che de modis significandi non erat scientia.

Poi gli lesse il Composto, impiegandovi sedici anni e due mesi, ma ecco che il detto precettore morì e

 

Fu l’anno mille quattrocento venti

Per uno scol che tolselo ai viventi.

 

Gli successe come precettore un vecchio catarroso, chiamato Maestro Giobelino Imbrigliato, che gli lesse Hugutio, il Grecismo di Hebrard, il Dottrinale, le Parti, il Quid est, il Supplementum, il Marmotteto, il De moribus in mensa servandis, il libro di Seneca: De quattuor virtutibus cardinalibus, il Passavanti con commento, il Dormi secure, per le feste, e vari altri della stessa farina.

Con questi studi divenne tanto sapiente che mai d’allora in poi ne fu infornato uno altrettale.

 

CAPITOLO XV.

 

Come qualmente Gargantua fu affidato ad altri precettori.

 

Intanto il padre notò che veramente il ragazzo studiava con amore e allo studio dava tutto il suo tempo, ma che non ne traeva profitto anzi, ciò ch’è peggio, ne diveniva matto, cretino, fantastico, farneticante.

E rammaricandosi un giorno con Don Filippo De Marais, viceré di Papaligozza, questi gli disse che sarebbe stato meglio non imparasse nulla piuttosto che ficcarsi in testa quei libri, con quei precettori: la scienza loro non era che bestialità, la loro sapienza scempiaggine, a non altro adatta che a imbastardire i buoni e nobili spiriti e a corrompere ogni fior di giovinezza. “Ne volete una prova? disse, prendete un giovanetto di questi d’ora che abbia studiato solo un paio d’anni, e se non mostrerà miglior giudizio, miglior parlare, migliori concetti di vostro figlio e anche miglior contegno e garbo tra la gente, dite pure d’ora innanzi ch’io non son altro che un taglia salame della Brenne”.

Piacque la proposta a Grangola e volle si facesse la prova.

La sera, a cena, il detto De Marais, presentò un suo paggetto di Villegongis, chiamato Eudemone, tanto ben pettinato e abbigliato, e pulitino, e grazioso nei modi che pareva un angioletto piuttosto che un uomo. E disse a Grangola:

- Vedete questo ragazzo? Non ha sedici anni; vediamo, di grazia, qual differenza sia tra il sapere dei vostri vuoti matteologi d’un tempo e i giovani d’oggidì.

- Vediamo, disse Grangola e comandò che il paggio incominciasse per primo.

Allora Eudemone, chiestane prima licenza al Viceré suo signore, col berretto in mano, la faccia aperta, le sue labbra rosse, gli occhi sicuri, volto lo sguardo a Gargantua, restando in piedi con modestia giovanile, cominciò a lodarlo ed esaltarlo prima per la virtù dei buoni costumi, in secondo luogo pel sapere, in terzo luogo per la nobiltà, in quarto luogo per la sua bellezza fisica. In quinto luogo lo esortava dolcemente a riverire con ogni riguardo suo padre, il quale si studiava di farlo ben istruire; e per ultimo lo pregava che volesse considerarlo come il più umile de’ suoi servi. Poiché altro dono non chiedeva al cielo pel momento, se non la fortuna di rendergli qualche gradito servigio.

Tutto il discorso fu profferito con gesti sì acconci, pronunzia sì schietta, voce sì eloquente e un fraseggiar latino sì puro ed adorno che parve un Gracco, un Cicerone, o un Emilio di Roma antica, meglio che un giovanetto di questo secolo.

La prova di Gargantua invece fu questa: che mettendosi a piangere come un vitello e nascondendo la faccia col berretto, non fu possibile cavargli una sola parola più che un peto da un asino morto.

Il padre ne fu tanto corrucciato che voleva ammazzare Mastro Giobelino. Ma il detto De Marais glielo impedì persuadendolo con buone parole a moderare la collera. Comandò tuttavia Grangola che fosse regolato subito il conto a Giobelino e che, dopo averlo fatto tracannare teologalmente, lo mandassero a tutti i diavoli.

Così, aggiungeva, se morisse briaco come un inglese per oggi almeno non costerebbe nulla al suo oste.

Partito Mastro Giobelino, Grangola chiese al Viceré quale precettore potesse consigliargli e fu tra loro stabilito di affidare l’ufficio a Ponocrate, precettore di Eudemone. E che tutti insieme andassero a Parigi per sapere quali erano gli studi dei giovanetti francesi di quel tempo.

 

CAPITOLO XVI.

 

Come qualmente Gargantua fu inviato a Parigi e l’enorme giumenta che lo portò e come qualmente essa si sbarazzò delle mosche bovine della Beauce.

 

Quella stessa stagione, Fayoles, quarto re di Numidia, mandò dall’Africa a Grangola la più enorme e grande giumenta che mai si vedesse, e la più mostruosa. (Dall’Africa, infatti, come sapete, giungono sempre cose mai viste). Era grande come sei oriflanti, aveva i piedi digitati come il cavallo di Giulio Cesare, le orecchie spenzolanti come le capre di Linguadoca e un piccolo corno sul culo. Quanto al resto aveva pelo rossigno fulvo intrammezzato di pomelli grigi. Ma soprattutto, aveva una coda orribile, grossa, pelo più, pelo meno, come la torre di Saint-Mars, presso Longès, e quadrata del pari, con ciuffi adunchi né più né meno che spighe di frumento.

Se ciò vi stupisce, stupitevi anche più della coda dei montoni sciti, che pesava più di trenta libbre, e delle pecore di Soria alle quali (se è vero ciò che dice Tenaud) bisogna attaccare una carretta al culo per portare una coda tanto lunga e pesante. D’egual misura non l’avete voialtri, porcaccioni d’insignificanti paesi.

Essa fu imbarcata su tre caracche e un brigantino fino al porto di Olona, in Thalmondoys.

Quando Grangola la vide: “Ecco, disse, quel che ci vuole per portare mio figlio a Parigi. Ora sì, per Dio, che tutto andrà bene! Ed egli diventerà un gran chierico. Ah, se non ci fossero le signore bestie noi vivremmo come chierici”.

L’indomani, dopo bere si sottintende, Gargantua, il suo precettore Ponocrate, il seguito e con essi il paggio Eudemone, si misero in viaggio. E poiché il tempo era sereno e mite, suo padre gli aveva fatto fare degli stivali gialli; Babin li chiama borzacchini.

Viaggiarono allegramente, sempre in gozzoviglia, fin sopra Orlèans. Là era un’estesa foresta, trentacinque leghe lunga e larga diciassette, o all’incirca, orribilmente fertile e infestata di mosche bovine e calabroni: un vero brigantaggio per le povere giumente, gli asini e i cavalli. Ma la giumenta di Gargantua vendicò bravamente tutti gli oltraggi colà perpetrati sulle bestie della sua specie, con un tiro che nessuno s’aspettava. Infatti, appena entrarono nella foresta, i calabroni volarono all’assalto, ma essa sguainò la sua coda e avventandola intorno, non solo li disperse, ma abbattè tutto il bosco. Come un falciatore fa cader l’erba così essa abbatteva gli alberi a torto e a traverso, di qua, di là, di su, di giù, in lungo e in largo, sopra e sotto di guisa che sparirono e bosco e calabroni: tutto il territorio fu rasa campagna.

A quello spettacolo Gargantua tutto gongolante, pur senza vantarsene, disse alla sua gente: “Beau ce”. Da quel giorno la regione cominciò a chiamarsi la Beauce.

Ma tutta la colazione si ridusse a sbadigli. In memoria di che anche oggi i gentiluomini della Beauce fanno colazione di sbadigli e ne hanno buon pro e ci sputano anche meglio.

Finalmente giunsero a Parigi.