Quest’ultima non dichiarò affatto che gli antichi dèi fossero chimere, come avevano sostenuto i filosofi, dèi parti della menzogna e dell’errore, ma li ritenne piuttosto spiriti malvagi, i quali, rovesciati dalla fulgida vetta della loro potenza in seguito alla vittoria di Cristo, sopravvivevano ora sulla terra, nell’oscurità di antichi templi in rovina o di foreste incantate, allettando alla perdizione – con le loro seducenti arti diaboliche, con voluttà e bellezza, specialmente con danze e canti – i deboli cristiani che vi si smarrivano». E come se fosse una ripresa a distanza degli stessi concetti e quasi delle stesse parole, il protagonista del racconto epistolare di Vernon Lee, Dionea, riflette fra sé e sé che «le divinità pagane durano molto più a lungo di quanto noi sospettiamo, qualche volta sono apparse nella loro intrinseca nudità, qualche volta negli abiti riadattati della Madonna e dei Santi» e quindi si chiede: «Esisteranno ancora ai giorni nostri? Si può dire che sono scomparse per sempre? Non è mai venuto meno il terribile mistero dei boschi più profondi con la loro luce verde filtrata, il cigolio delle canne ondeggianti e solitarie...». Nelle pagine narrative di Vernon Lee, le antiche divinità ritornano in fogge e funzioni sorprendenti e inattese, ora portando con sé un’atavica carica istintuale come segno dell’ineludibilità del destino di cui sono tuttora portatrici, ora assumendo una malinconica elusività che le costringe ad un’esistenza umbratile e fuggitiva, ma non per questo meno insidiosa e fatale.
Che Vernon Lee avesse viva la percezione di una sorta di identità nascosta in ogni oggetto, in ogni manifestazione e in ogni tratto del paesaggio è attestato da una bella pagina dello scrittore Maurice Baring che vedeva nell’amica la persona più adatta per introdurre il forestiero agli aspetti più vari della civiltà italiana e ai meandri della sua storia più lontana e segreta: «Vi mostrava il significato delle strade italiane, delle pietre, dei carri, delle botti, dei tini, dei muri, delle effigi, delle bambole, delle marionette, dei santuari cattolici e degli dèi pagani ai bordi della strada. Aveva adorato i Lari e i Penati dell’Italia antica per tutta la sua vita e conosceva il rituale ed il rispetto ad essi dovuto allo stesso modo di quello che si doveva ai santi cristiani che avevano preso il loro posto, sia che il culto e l’influenza in questione si manifestasse in un carro trainato da buoi o in un frammento di canzone o nel suono del flauto di qualche pastore vestito di pelli...». Il suo concetto di genius loci nasce appunto da questa latenza sepolta, da questa irriducibile memoria pagana alla quale la singola località affida la propria codificazione identitaria. Lo spirito del luogo si mimetizza nei modi e nelle forme più impensati, esso è il misterioso graal per pochi iniziati che sanno come schiudere il varco, come orientarsi in questi paesaggi di trame e di enigmi.
La ricerca dello spirito del luogo diventa quindi un viaggio iniziatico nel quale il visitatore di un paesaggio o di una città non è molto differente dal rabdomante che «sente» una presenza nascosta, ammutolita da secoli eppure disposta a parlare ove sia interrogata con cautela, con discrezione e con tatto. Perché possa esprimersi, il luogo deve essere investito dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni e recepito dalle nostre facoltà sensoriali, infatti proprio nella sua connaturata elusività, nel suo manifestarsi occasionale ed effimero è inscritta la cifra del nostro destino, del nostro limite, della nostra stessa fugace felicità. «Mi ricordo ancora come se fosse ieri» scrive Vernon Lee in un saggio di The Golden Keys dedicato a Siena, «la sottile trafittura dell’azzurro oltremare di quelle colline oltre la Lizza... quell’inconfondibile colore azzurro di contro al cielo eburneo della sera s’identificava e addirittura diventava, diciamo così, il colore stesso del desiderio dell’inaccessibile, del congedo da ciò di cui si è troppo brevemente goduto». Ci sono momenti della giornata particolarmente idonei alla percezione di questa consonanza che coincide con la manifestazione dello spirito del luogo, così come ci sono condizioni meteorologiche che ne favoriscono l’approccio. Le città manifestano la propria natura più intima nell’atmosfera lustrale dell’alba o nell’estenuazione sospesa del tramonto, le campagne sotto la sferza del demone meridiano. Allora il luogo può rivelarsi nella sua estatica essenza, in un’epifania dolente che condensa lo spazio e annulla il tempo.
Talora la comparsa dello spirito, nel quale sono comprese le qualità morfologiche e storiche di un luogo e i segni della sua particolare civiltà, ha le caratteristiche del perturbante, ossia di un’inerme familiarità che ci mostra all’improvviso un volto inatteso, ed è il caso del vecchio coperto di verderame che ci appare al termine di un lungo giro nelle campagne della Turenna. Secondo i crismi di ogni evocazione, lo spirito del luogo necessita di una solerte intermediazione, come nell’esempio appena citato dove tale funzione viene esperita dal contadino dall’eloquio forbito, particolarmente consono con la natura agreste di quell’universo concluso. Altre volte il genius s’identifica, alla maniera di Heine, nella figura di un santo cristiano sotto le cui spoglie si cela un’arcaica divinità pagana, come nel san Gerione di Colonia, il saggio che più di ogni altro s’avvicina alla narrativa d’invenzione; oppure s’identifica con il figlio illustre da cui una data località trae la fama, o con l’effigie dell’anonimo prototipo – soddisfatto borghese o ardito cavaliere – del genere di vita che vi si giubila e del mestiere che vi si professa. Altre volte ancora i segni di un’antica latenza sono affidati – come ci aveva avvertito Maurice Baring – ad umili oggetti cultuali come i «giardini d’Adone», o agli arcaici canti che echeggiano gutturali nei riti della settimana santa in Toscana.
Raramente d’altronde lo spirito del luogo si lascia sorprendere nelle forme di un personaggio, di una statua, di un dipinto o di un simbolo. Anzi il solo pretendere di dargli una forma o rivestirlo dei panni del simbolo o dell’allegoria significherebbe costringerlo a vanificarsi. Addentrandoci nella Siena di Simone Martini, nello sfacelo della corte di Mantova, nelle montagne del pistoiese, nella Venezia in attesa di Cook e dei suoi turisti, ci si accorge che la ricerca dello spirito del luogo si tramuta spesso nell’analisi di ben più ampio respiro di una civiltà, del suo fulgore, della sua decadenza e soprattutto di quell’insieme di elementi che la rendono unica e inconfondibile. Quando la consonanza con un contesto è completa, la narrazione procede per aforismi nei quali è racchiuso il seme di una grande civiltà, come quella dei pittori senesi che condussero la loro arte ad una tale estenuazione, da ignorare quanto succedeva al di là dei boschi e delle vigne del Chianti. Durante un soggiorno in Piemonte un’amara ironia spinge la scrittrice a chiedersi quanto gli italiani, affascinati da geniali ribaldi come il «principe» di Machiavelli, possano riconoscersi in una così prosaica dinastia. Nel piccolo museo di Bayeux, dinanzi al celebre arazzo la memoria dell’antico oblitera le meschine dispute nazionalistiche e, come un’involontaria premonizione, ci ricorda che «la razza è niente e la lingua è tutto». Una lezione, questa, tramandata ancora una volta dal mondo della classicità attraverso il lungo cammino dei secoli e inscritta negli enigmi di cui sono intessute le trame delle città e dei paesaggi.
A. B.
Genius Loci
Lo spirito del luogo
Ai cipressi di Vincigliata
e ai querceti di Abbey Leix
dedico con gratitudine
questo libretto
Introduzione
Ditemi, o pietre, e voi eccelsi palazzi, parlate,
una parola abbiate per me, superbe strade!
Solo tu sei muto, o Genio?
GOETHE, Elegie romane, I
Aveva piovuto a dirotto durante quell’ultimo giorno a Verona e il cielo aveva cominciato a schiarirsi solo nel pomeriggio. Comprai un mazzolino di lavanda per ricordo e prima di partire sorseggiai un caffè in Piazza dei Signori. Le pietre erano ancora bagnate, ma il cielo era ormai sereno. Umide nubi salpavano sopra le torri, i colombi torraioli beccavano sui marciapiedi e volavano dentro le fessure dei palazzi, le rondini emettevano strida mentre, nascosto dietro ai tetti, il sole stava tramontando. È a quest’ora, al suono delle campane, che il genio delle antiche città sembra ridestarsi e sopraffare il cuore.
Per alcuni di noi è innegabile che i posti e le località (non so trovare altra espressione abbastanza tenera e riverente nella nostra lingua pratica e personale) divengano oggetto di un sentimento intenso e assai intimo. Prescindendo dagli abitanti e virtualmente dalla loro storia scritta, essi ci possono toccare nell’intimo come creature viventi; e noi possiamo stringere con loro un legame di amicizia tra i più profondi e in grado di soddisfarci.
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