La chiesa Gumbertus, originariamente gotica, ricostruita nel più meraviglioso luogo di culto protestante del XVIII secolo, decorata (come diceva Heine delle chiese luterane) solo da enormi e mobili versetti dei salmi, dove quei Margravi, che ora riposano sotto, defunti, una volta riposavano vivi nel gigantesco coro con stufa e poltrone. Le meno attraenti qualità del XVIII secolo (con reminiscenze di certe chiese dell’Inghilterra georgiana, che, ricordiamolo, si imparentò con un Ansbach), gravano sullo spirito come nebbia. Allorché la giovane dama, con le mansioni di sacrestano, gira la chiave e spalanca una grossa porta di quel tempio a galleria con i banchi dalla tipica prosaicità del XVIII secolo, si rivela una visione da romanzo gotico. Quando gran parte dell’edificio andò a fuoco e fu demolito, rimase intatto solo il coro dell’originale chiesa del XIV secolo. Nello stretto semicerchio, fiocamente illuminato dalle finestre impolverate ad ogiva, si trova un grande trittico d’oro sull’altare con un San Giorgio in cima, scolpito e dorato. Al di sopra ci sono stemmi anneriti, quegli splendidi stemmi tedeschi con fantastiche decorazioni di zanne di elefante o code di sirene e due solenni trofei di lance e di bandiere strappate. E tutto intorno figure a grandezza naturale, pietre tombali poste per dritto dei Cavalieri del Cigno del Margravio Albrecht Achilles.

Sono più o meno rotte e senza volto, indubbiamente arcaiche e un po’ infantili nell’esecuzione; ma ci riportano indietro nel tempo per una certa rigida vivacità di gesti e per una strana, solenne eleganza dell’inflessibile magra figura e del volto risoluto e senza barba. Nobili ladri, filibustieri capitani di ventura, senza dubbio, questi Ehrenheims, Ledenbachs, Ebersteins, così ritratti da uno sconosciuto scalpellino del XV secolo. Ma di che si tratta? Questi uomini di grigia pietra consunta raffigurati nelle loro effigi, questi cavalieri con lunghe armature aderenti al corpo e lunghe mani delicate e sensibili, questi Cavalieri del Cigno del Margravio Albrecht Achilles, in virtù dell’animo del loro scultore, sono tutti dei paladini. E tuttavia non posso ritenermi soddisfatta: l’arte, sebbene sincera, non può trasformarci nel suo zimbello. E c’è uno dei Cavalieri del Cigno, un giovane Ebersteins, con la data 1479 ed il motto «Nobile e Saldo», il quale è proteso con slancio in avanti, la spada in mano. Non posso credere che lo scultore di Ansbach abbia fatto di lui un San Giorgio, senza che il cavaliere avvertisse nascosto dentro di sé un vero San Giorgio. Rimuginando su alcune oziose domande del genere (alle quali non desidero avere risposta), seguii la mia amica nel caro, piccolo parco di Ansbach dove, tra ordinari cespugli, una colonna segna il punto dell’assassinio di Kasper Hauser avvenuto circa cinquanta anni fa, l’individuo «misterioso misteriosamente ucciso» recita il latino. Prendemmo il caffè e la torta di pane alla prima orangerie, tra alberi di arancio e piante in vaso di alloro potato. Altre famiglie prendevano il caffè intorno a noi, le donne cucivano serenamente. Riferii alla mia amica alcune informazioni confuse su Kasper Hauser, di un certo vecchio, vecchio barone von Blank, con cui mio padre qualche volta andava a caccia, e che mi era stato indicato nella mia infanzia come «il ministro del duca, che sapeva con sicurezza chi fosse Kasper Hauser». Discutemmo della improbabile storia mentre sorseggiavamo il caffè all’orangerie e mentre aspettavamo il treno che ci avrebbe portato lontano da Ansbach. Ma la mia mente ritornava senza posa al coro della chiesa Gumbertus e tra i Cavalieri del Cigno del Margravio Albrecht Achilles.

Su in alto

Tra i vari tipi di amore che possiamo provare per i luoghi esiste, provvidenzialmente, l’amore per il luogo che non ci piace mentre vi si abita. Provvidenzialmente, certo. Perché è una grazia divina, una volta che la nostra salute malferma o il malumore siano svaniti, una volta che l’incompatibilità dettata dalle circostanze corporee o momentanee non sussistono più, l’essere in grado di intrattenere rapporti di apprezzamento e di felicità con qualcosa. E il ricordo è sicuramente un qualcosa di molto grande. Ho fatto questa particolare esperienza due volte nella vita in maniera molto intensa: una volta in Marocco, dove fui mandata durante una malattia, e un’altra nelle alte Alpi, anzi nelle Alpi più alte, dove la mia malattia peggiorò dopo i primi due giorni. In ambedue i casi ho provato un senso di acuta irritazione per esservi stata condotta. Ma una volta lontano, che piacere esserci stata!

Questi devono essere stati i sentimenti di Enea e della Sibilla dopo il viaggio giù nell’Averno e sarebbero stati i sentimenti di Euridice se, come nell’opera di Gluck, ella fosse ritornata per sempre sulla terra dopo il soggiorno nell’Elisio, un luogo indicibilmente deprimente, come sembra, ma meravigliosamente piacevole nei dettagli! Non è un caso se paragono le alte Alpi all’Elisio. Sono sicura che le dimore dei Beati (così dolci ma così tristi nei cori di Gluck) non fossero sottoterra, ma molto in alto, per così dire, sopra di essa. Mentre oggi Orfeo potrebbe incontrare soltanto i minatori che organizzano scioperi, scendendo sottoterra, molto probabilmente potrebbe trovare Euridice su in alto, in qualche prato alpino, con fiori più belli e più meravigliosi degli asfodeli, sotto un cielo troppo brillante per occhi mortali, in un’aria troppo rarefatta per polmoni umani, un prato che mura sconfinate di rocce e di neve segregano da ogni vista e quasi da ogni memoria di esseri viventi...

Capisco che talvolta è bene (a parte le scalate) recarci in questi luoghi elevati, anche se quasi ci uccidono mentre vi soggiorniamo, per amore di quel senso di immacolata verginità che la vita moderna ci fa desiderare. Ma questa impressione è dovuta al fatto che la vita umana è del tutto impossibile in questi luoghi. Parlo di luoghi sepolti dalla neve otto mesi su dodici, dove il bestiame sosta solo poche settimane e ogni approvvigionamento, salvo il loro latte, deve esservi portato da molte centinaia di piedi più in basso; luoghi in cui, come risultato, l’esistenza umana è tenuta con i denti come in una nave nel mezzo dell’oceano. Voglia il cielo che rimangano remoti, che non ci sia alcun meccanismo, materiale o intellettuale, che li renda di facile accesso, o che li rifornisca del necessario.